Ho conosciuto Cristian Piazza a New York. Il mio film, “Senza distanza” e il suo, “Waiting“, venivano proiettati nello stesso festival. Trovare un italiano che vive da sedici anni a New York, produce una strana sensazione: si ha l’impressione di avere un piede poggiato sul nostro Stivale, e uno dall’altra parte dell’oceano. A NY mi sono sentito a casa, mai un turista, perché consapevole di quanto dell’Italia, dell’Europa e del resto del mondo ci sia in quella straordinaria città. E guardando il pluripremiato documentario di Cristian (con la voce narrante di John Turturro) ho capito ancora di più la prospettiva dei miei connazionali che hanno lasciato la loro casa per esprimersi in quella megalopoli fatta di cittadini del mondo.
In quei giorni newyorchesi io e Cristian ci siamo confrontati riguardo alla nostra idea di cinema.
Innanzitutto mi piacerebbe chiederti: cosa significa essere un regista italiano a New York? Cosa cambia rispetto all’essere in Italia?
Per me è molto difficile risponderti. La mia storia non si svolge da un punto A a un punto B. Personalmente credo che fare cinema ha poco a che vedere con la cittadinanza, sarebbe molto riduttivo. Certo, mi sento italiano, ma allo stesso tempo mi sento anche sudamericano, ma soprattutto, dopo sedici anni, mi sento newyorchese e sono a casa. Waiting è un film che appartiene a NY e che vuole rendere omaggio al coraggio e la determinazione di quelli che hanno lasciato il loro paese per trovarne un altro (tra questi i miei nonni e i miei genitori). Mi riferisco all’immigrazione dei giorni nostri ma anche a quella storica, dei tantissimi italiani che sono partiti nel secolo scorso per l’America, ma anche per Australia, Argentina, Venezuela, Germania. Mi faccio questa domanda da sempre: dov’è casa? È il posto dove si nasce, dove si cresce o quello dove uno sceglie di vivere? Forse una combinazione di tutte e tre le cose e chissà quante altre. Casa è anche dove sono i ricordi, e da questo punto di vista ne ho tante. Leggevo anni fa un’intervista con Baz Luhrman che diceva: “Tutti qui (a New York) veniamo da posti diversi, ma non sei giudicato per il tuo passato o il tuo accento o dove hai studiato”. Quando ho fatto Waiting ho pensato alle culture che mi appartengono, ma ho guardato soprattutto alle storie, ai valori umani messi in gioco nel racconto. I particolari accennano gli universali. Spero di esserci riuscito.
Da dove nasce l’esigenza di realizzare un film come Waiting? Perché hai scelto proprio la forma del documentario?
Waiting è un riflesso del mio percorso di emigrato perenne. Tante cose raccontate attraverso le storie di questi ragazzi mi appartengono. Finire questo film era la mia vera opportunità, come per il pugile combattere per il titolo mondiale. Il documentario può essere un modo molto onesto di raccontare, anche se non si escludono le manipolazioni di tanti documentaristi. Non si fanno prove e i gesti sono genuini, com sfumature che non trovi nella recitazione. La fase di montaggio di un documentario, pur avendo scritto le scene prima di fare i tagli, è molto creativa e molto ampia; si possono creare tantissimi film con lo stesso footage. Per un film autofinanziato come il mio, il documentario era il modo più efficace di poter raccontare. Sapevo esattamente cosa cercavo: giovani emigrati italiani di classe media senza particolari privilegi, che lavorassero nella ristorazione. Waiting in inglese è un gioco di parole perché vuol dire servire (ai tavoli) e anche attendere. Spesso si parla poco di questa gente quando vogliamo raccontare l’Italia all’estero. Conosco tanti italiani che si rifiutano di usare la parola “emigrato”. Si fanno chiamare “expat”, “italiani all’estero”, “travellers”. La mia è anche una storia di seconde opportunità. Ci ho messo un po’ a capire che sarebbe stato il tema principale del documentario. Sono venuto qui alla ricerca di un nuovo inizio, proprio come i miei protagonisti. Avevo trovato un lavoro in RAI a New York ma è durato solo pochi mesi: volevo fare cinema ed ho pensato che era il momento giusto per creare qualcosa di interamente mio. Ho lavorato in ristoranti newyorkesi e mi è capitato di incontrare persone con le stesse speranze.
Il tuo è un cinema indipendente e dalla connotazione fortemente personale. Quale direzione credi che stia prendendo la cinematografia indipendente mondiale e come credi che il panorama newyorchese/statunitense si rapporti a questa tendenza generale?
Puoi pensare che la presenza di centinaia di festival sia una cosa molto positiva per il lavoro indipendente. E certamente per tanti aspetti lo è. Tanti film dipendono da queste rassegne chiamate “minori” per avere un po’ di visibilità. Ma così il cinema rischia di ghettizzarsi e questo non fa bene a nessuno. Si può fare del gran cinema con pochi o tanti soldi, basta saper mettere insieme le parti. Il cinema è collaborazione, è un lavoro di squadra. La storia è il cervello di qualunque film. La sceneggiatura, poco rispettata e curata negli ultimi tempi, anche in Italia, è la base su cui costruire il resto. Penso che il cinema indipendente debba rimanere tale, e con questo voglio dire che deve rischiare e innovare, ma deve sapere anche a cosa si sta ribellando: per cambiare le regole o adattarle a una visione particolare bisogna conoscerle.