Il concorso italiano dell’ultima edizione del Festival dei Popoli di Firenze, la sessantesima, è stato vinto da Vulnerabile bellezza (qui il trailer), l’accorato e intimo ricorso al cinema di un filmmaker con la necessità di mettere da parte la narrazione dell’emergenza paratelevisiva. Manuele Mandolesi racconta la vita resistente di una giovane famiglia di allevatori lungo i solitari mesi che seguono il terremoto del 2016 nel Centro Italia.
Mandolesi, classe ’77, inizia a lavorare da filmmaker già durante gli anni di studio all’università, Scienze della comunicazione. Dopo una intensa gavetta prima in una televisione locale, poi nei videoclip musicali e nei video aziendali, e dopo un master alla Bicocca, Mandolesi inizia a occuparsi di videogiornalismo e reportage d’attualità. Anni di lavoro che gli fanno accumulare esperienza nel racconto audiovisivo del presente e nelle relazioni con le persone coinvolte negli eventi usati e abusati dalla cronaca.
Nel 2016, durante le prime due grandi scosse che colpiscono il Lazio, le Marche e l’Umbria, Mandolesi è lontano. Dopo la terza, la più devastante, visita Visso e Ussita. Ritorna in luoghi che conosce fin dall’infanzia, li esplora scoprendone da testimone diretto la distruzione dolorosa, lo spopolamento, assiste allo sciamare dei giornalisti e delle troupe, aspetta. Inizia un lento e graduale avvicinamento con i locali, costruendo connessioni fondate sulla proposta esplicita di partecipare a una narrazione diversa di quel disastro collettivo. Una narrazione centrata sul seguito a quel disastro, sulla quotidiana resistenza, sulla reazione vitale e necessaria, sulla solitudine e la solidarietà.
Così nasce il progetto di un film “in ritardo”, fuori tempo, che racconti quei luoghi e le vite di chi resta dopo la cancellazione del terremoto dal palinsesto delle cronache televisive, quando gli inviati, le loro troupe e i loro furgoni non ci sono più. Il progetto di un film che esca a tre anni circa dal terremoto, quando il regista si aspetta che l’eco mediatica del cataclisma si sia del tutto esaurita. Il progetto presto si divide in tre parti: un lungometraggio cinematografico, un mediometraggio più concentrato su testimonianze e interviste, una serie web dedicata ai giovani e alle loro iniziative di ristrutturazione di reti sociali, di comunicazione, di rapporti. I tre fili di lavoro vengono alimentati contemporaneamente per due anni, dall’estate del 2017 all’estate del 2019. Le ultime riprese sono per il mediometraggio, Questa è casa nostra, finito quasi in contemporanea con Vulnerabile bellezza, mentre è ancora da terminare il montaggio della serie per il web.
Per il lungometraggio cinematografico, Vulnerabile bellezza, Mandolesi sceglie una coppia di allevatori con due figli piccoli che gravita intorno a Ussita e inizia a visitarli assiduamente, riprendendoli per una decina di giorni al mese. Non c’è produzione, la troupe è ridotta al solo regista accompagnato spesso dal direttore della fotografia o dal fonico. Mentre il film prende forma, Mandolesi chiede udienza alle aziende del territorio, proponendo di finanziare piccole porzioni del progetto e ottenendo i fondi sufficienti a coprire le spese. Intanto passa in rassegna il girato che accumula nei giorni sui monti, ne scopre i momenti forti, le lacune, le inadempienze per tornare a girare con nuove idee su dove dirigere l’obiettivo e come stimolare i suoi protagonisti.
Il film che ne viene fuori è un inconsueto racconto che lascia sullo sfondo i fatti precisi e le date esatte, i telegiornali, le telefonate concitate, i soccorsi e i soccorritori ‒ l’incipit è la condensazione in pochi cartelli dei fatti e delle conseguenze materiali, coperti dal sonoro delle disperate chiamate ai numeri d’emergenza ‒ e mette al centro, in uno sguardo sospeso tra ascolto partecipe e distaccata, assorta contemplazione, la forza e la fragilità di una coppia e della loro famiglia e il legame che li lega ‒ attraverso il lavoro ‒ alla loro terra. Cambiano gli abiti, cambiano le case di fortuna che via via i quattro riescono a rimediare, solo resta fermo l’orizzonte imponente dei monti, nonostante la terra torni a tremare e rischi a ogni passo di ricadere sulle teste di chi l’abita; come quando una caduta di rocce e sassi frana lungo il fianco della montagna poco lontano dal pascolo dove si trovano i due allevatori e i loro animali.
Manuele Mandolesi trova il modo di entrare nella trama intima di affetti e condivisione che tende e sostiene la vita della famiglia dal suo interno, senza mai ricorrere all’intervista, alla dichiarazione obliqua, al gesto eseguito a favore di macchina. In un laconico diario cadenzato dalle stagioni e dalla voce della donna che legge ai figli una fiaba per prepararli al sonno, i giorni si succedono contenendo nello stesso tempo gli sforzi sempre rinnovati di preservare la routine delle liturgie casalinghe ‒ dall’igiene personale alle serate passate insieme ‒ e la fatica del lavoro, dura ma lieta. In mezzo lo spazio necessario per sperare e progettare un futuro, la laboriosa attesa della nuova piccola terra promessa in costruzione: una stalla e una casetta garantiti dalla donazione di un privato.
Vulnerabile bellezza si nega ai cliché e alle strade già battute, e senza evitare qualche passo falso ‒ che resta a testimoniare l’autenticità della ricerca autonoma del regista ‒ racconta una storia drammatica, le ferite e i traumi che essa produce, evitando di spingere i suoi protagonisti nel ruolo degli eroi e liberandosi dei registri canonici, delle retoriche pietistiche, del birignao della critica politica o dell’epopea tragica. In una sorta di commedia esistenziale agrodolce trova invece la giusta misura per descrivere discretamente i grandi e piccoli spaesamenti, la stanchezza, la paura, impastati in una trama emotiva essenziale ma densa in cui si alternano la meraviglia, la pazienza, la passione e la gioia. E con una delicatezza fuori dal comune, Manuele Mandolesi riesce a registrare la somiglianza quasi palpabile tra i volti dei due allevatori, la forza e la gentilezza dei loro corpi sempre tesi, sempre in movimento e quella del paesaggio che li circonda, e sul quale si posa ogni giorno il loro sguardo d’interrogazione, di timore e di gratitudine.