“Vergot” è l’esordio internazionale di Cecilia Bozza Wolf. Un piccolo intenso documentario sulla riforma delle relazioni familiari tra maschi che nasce dal confronto con il dolore e col bisogno d’amore di un giovane uomo.
A Bologna, organizzato dall’associazione D.E.R. (Documentaristi Emilia Romagna), si tiene da dieci anni un festival interamente dedicato ai giovani registi documentaristi sotto i trent’anni. L’edizione più recente, quella dello scorso dicembre 2016, ha consegnato il premio Docunder30 a Cecilia Bozza Wolf per il suo Vergot, appena pochi giorni dopo l’anteprima mondiale tenutasi a Firenze dove il Festival dei Popoli l’aveva già scelto per il Concorso Italiano.
Cecilia viene dalla provincia trentina. Laureata al DAMS di Padova con una tesi su Fellini (sotto la guida di Mario Brenta, regista oltre che professore, allievo a sua volta di Ermanno Olmi, che consiglierà Cecilia anche su suoi cimenti cinematografici successivi) inizia ancora durante gli studi universitari a far pratica su una camera minidv di seconda mano. Alla carriera accademica preferisce, dopo la laurea, una scuola di cinema. Così, mentre si susseguono le prime esperienze semiprofessionali, Cecilia passa le selezioni e inizia la Zelig di Bolzano, una delle più autorevoli scuole di documentario in Italia e in Europa. Un percorso di studi e di preparazione al lavoro nel cinema tanto lineare quanto ancora poco diffuso tra i professionisti nostrani. Un segno dei tempi che – finalmente – cambiano.
La storia di Vergot comincia nello stesso periodo, intorno alla metà del 2013: con l’amico e collega Raffaele Pizzatti Sartorelli Cecilia inizia le ricerche per un film sulle rock band sparse nelle valli e sui monti intorno a Trento. L’incontro con Gim e Alex, i protagonisti di Vergot, due giovani fratelli che si dividono tra il lavoro agricolo e la musica, ciascuno con la propria band, è l’inizio di un rapporto che ancora oggi non ha smesso di evolversi, e che prima di tutto spinge Cecilia a ripensare il progetto del film, facendone nascere uno del tutto nuovo e parallelo al primo: un film sul rapporto tra i due giovani, scegliendo come prospettiva e filo del discorso la difficile affermazione di Gim, omosessuale appena maggiorenne, all’interno della famiglia e nel conflittuale confronto con il fratello maggiore Alex. Dopo una prima fase di riprese, e un rallentamento che diventa poi sospensione, il lavoro con i due fratelli torna a muoversi per diventare infine il film di diploma di Cecilia e il suo debutto internazionale.
Vergot è una parola del dialetto trentino: in italiano significa “qualcosa”. Un piccolo intenso film sulla riforma delle relazioni familiari tra maschi che nasce dal confronto con il dolore e col bisogno d’amore di un giovane uomo. Come già i due precedenti cortometraggi girati negli anni Zelig – Non disturbo (2014) fulmineo ritratto di una cacciatrice solitaria, eremita dei boschi e Metalmorphosis (2015), cronaca minima dei giorni di un cinquantenne, padre immaturo, rockstar di provincia di notte, “operatore mortuario” di giorno – Cecilia Bozza Wolf lavora su pochi essenziali elementi posandoci sopra uno sguardo d’intensità e d’intuizione che riesce – dopo aver costruito una relazione ispessita nel tempo e un’osservazione discreta ma sagace – a registrare e riprodurre il colore esatto di una situazione, modulandone i dettagli e le sfumature impercettibili.
Al centro di Vergot c’è Gim, ripreso e ascoltato lungo un arco temporale che copre la maturazione di una coscienza e di un’identità. Accanto gli sta Alex, il fratello maggiore: altra solitudine densa ma diversamente interpretata e dissipata. Infine il padre, incapace d’esprimere affetto, impreparato a riconoscere il suo stesso amore per i figli. E poi il fantasma di una madre che si palesa solo attraverso le spicciole richieste d’amministrazione domestica, scritte su foglietti di carta, passati sotto le porte o lasciati sopra i letti. Il lavoro del film comincia prima che Cecilia prenda in mano la camera, cosicché quando la macchina inizia a registrare l’obiettivo è già dentro la fitta trama delle tensioni affettive. Il girato è frutto di una consapevole partecipazione condivisa, tanto che alcune delle scene montate vengono dalla richiesta esplicita e diretta dei protagonisti.
Vergot è dunque prima di tutto un film di situazioni che procede per salti, mettendo in fila una teoria di momenti topici, di quadri cronologicamente indefiniti. Solo pochi dettagli discreti suggeriscono una sequenza temporale. Più che essere antinarrativo Vergot propone invece una narrazione diversa, che procede per eventi emotivi, seguendo in un disegno lacunoso ma coerente il graduale scioglimento di una relazione tripartita. Un racconto di gesti, di sguardi, di azioni elementari, di singhiozzi e grida, distillato dalla presenza assidua e dall’intimità ottenuta anche grazie a ingegnose accortezze (la registrazione del suono in presa diretta è stata affidata dalla regista al cugino dei due protagonisti; la troupe – ridotta spesso a due sole persone – ha potuto così muoversi in confidenza con i ragazzi e la loro famiglia).
Una prova che testimonia non solo il talento dell’intelligenza cinematografica di una regista ancora in via di maturazione ma che mette anche in luce le capacità del promettente montatore Pierpaolo Filomeno, compagno di Cecilia Bozza Wolf alla Zelig, che per questo lavoro ha vinto infatti il Doc/it professional Award.