È spagnolo per nascita, ma è sempre stato un giramondo. Arthur Balder, 44 anni, è un artista al tempo stesso creativo e meticoloso. Ne sono indice il rigore stilistico e la cura estetica con cui ha diretto il docufilm American Mirror sul pittore armeno Tigran Tsitoghdzyan, vincitore del premio come Miglior documentario internazionale all’ultima edizione dei «Fabrique Awards». Un lavoro che gli ha offerto l’occasione per affrontare temi quali il confine tra obiettività e soggettività e la complessità dei rapporti umani e che nel cast vanta una Susan Sarandon carismatica come non mai.
Come sei venuto a conoscenza del lavoro di Tigran e cosa ti ha colpito della sua arte e della sua personalità?
A dire il vero ho incontrato prima la donna che all’epoca era sua moglie: la modella Nadia Kazakova. È stata lei a farmi conoscere il lavoro di Tigran. L’arte mi affascina perché si colloca a un livello molto intimo e personale dell’essere umano. In questo caso, l’arte iperrealistica di Tigran offriva una vasta serie di possibilità legate al linguaggio cinematografico. La prossimità tra il suo codice artistico e il mio mi ha spinto a esplorare la possibilità di fondere le due cose. Sono molto grato al produttore David Shara che mi ha permesso di tradurre quest’idea in realtà.
Il protagonista, che appare in bilico tra successo e solitudine, ritrae donne oggettivamente belle e realizza opere impeccabilmente patinate. Eppure il suo immaginario, lo vediamo nei flashback, è popolato da immagini grezze, sporche, persino deformi. È stato arduo, da regista, raccontare questo conflitto interiore?
Quando si gira un documentario su un artista si possono percorrere varie strade. Se l’artista non c’è più, sappiamo tutto di lui e della sua poetica… conosciamo l’inizio e la fine della storia. Quando, invece, è in vita e ha solo 42 anni, fornire una visione esclusivamente obiettiva sarebbe limitante. Ho pensato che, dando al film un’impronta soggettiva, avrei potuto dire molto di più. Nel film si capisce che a Tigran sta succedendo qualcosa nonostante nessuno faccia cenno ai suoi drammi personali. La mia intenzione era trasmettere queste informazioni in modo non convenzionale, evitando la classica situazione in cui è proprio l’artista a spiegare se stesso. Sicuramente è stato difficile da realizzare: si va a costruire una dimensione che non è del tutto reale ma non è più solo fiction.
Dirigere un’attrice Premio Oscar è un’occasione d’oro per un regista. Come hai coinvolto Susan Sarandon nel progetto e quali indicazioni le hai dato in fase di riprese?
Non volevo una top model, ma una donna con una spiccata femminilità, che incarnasse l’idea che presiede al film. Avere l’opportunità di lavorare con Susan Sarandon è stata una meravigliosa sorpresa. Ha un carisma incredibile e rappresenta alla perfezione le suggestioni che volevo trasmettere. Tigran doveva realizzare un suo ritratto, così abbiamo colto l’occasione per parlarle del progetto e lei ha accettato di farne parte. È una donna molto esigente, una vera professionista. Per quanto riguarda i loro dialoghi, ho preparato una lista di domande che ho sottoposto a Tigran. Non si può pretendere che un artista, riservato per natura, sappia come reagire in un dialogo faccia a faccia con un’attrice famosa e con due telecamere puntate addosso. Era fondamentale che fosse pronto. Entrambi non dovevano recitare, io ho solo fornito delle linee guida per la loro conversazione, in modo che prendesse la piega che desideravo. Puoi avere la luce giusta, le migliori macchine da presa, ma se la conversazione langue, è tutto fine a se stesso. La loro intesa è stata determinante per la riuscita della sequenza, che è il fulcro dello script. Tutte le risposte di Susan sono spontanee, è improvvisazione. Ma per ottenere buone risposte, bisogna fare le domande giuste.
Troverai l’intervista completa ad Arthur Balder sul prossimo numero di «Fabrique du Cinéma».