Si stima che tra il 2008 e il 2014 oltre 184 milioni di persone sono state costrette a cambiare paese per eventi legati al clima. Elena Brunello racconta le loro storie in The Climate Limbo, documentario realizzato con i registi Paolo Caselli e Francesco Ferri (Dueotto Film).
Limbo è il concetto-chiave. Nel limbo ci sono le storie di chi ancora non vede riconosciuto lo status di rifugiato climatico. In un limbo vaga, ancora troppo diffusamente, la coscienza di ciò che comporterà una crisi climatica ormai irreversibile. Una crisi di cui potremo solo provare a contenere le conseguenze. E che ci riguarda da vicino.
Elena, perché un documentario proprio sulla relazione tra cambiamenti climatici e migrazioni?
Si parla molto ormai di cambiamento climatico, di ghiacciai che si sciolgono e altre catastrofi naturali: tutto vero e importantissimo. Raramente però si parla di quanto questi fenomeni possano far spostare le persone. Le hanno sempre fatte spostare in realtà, ma oggi succede molto più velocemente e il tempo per adattarsi è limitato. A me interessava raccontare qualcosa che colpisse l’uomo, che riguardasse tutti quanti noi da vicino e che aiutasse a vedere la problematica da un’angolatura diversa.
Raccontare storie personali è interessante e imprescindibile: in fin dei conti sono le persone, prima ancora che il pianeta, ad essere in pericolo…
Esatto, il punto era far capire alle persone come questo problema potrebbe impattare su di loro: non è escluso che dovrai lasciare casa tua, che pagherai il triplo per la bolletta di energia elettrica o per i prodotti sanitari. Volevamo comunicare cosa potrebbe succedere da qui ai prossimi anni. Poi facendo interviste in giro ci siamo accorti che tendenzialmente si crede che la relazione tra migrazione e cambiamento climatico appartenga a zone lontane, che sia l’isola del Pacifico o l’area della Nigeria da dove proviene Queen [una delle protagoniste del documentario, ndr]. La verità è che, per la velocità con cui avvengono i cambiamenti climatici, tra non molto anche noi del primo mondo dovremo spostarci, o comunque saremo costretti a subire danni considerevoli.
E le storie di Carlotta e Luigi, allevatrice e agricoltore piemontesi, sono emblematiche da questo punto di vista. Come li avete trovati questi due personaggi?
Loro li abbiamo trovati per caso. Siamo andati in giro nelle campagne del Piemonte per fare delle riprese, per pranzo ci siamo fermati in una trattoria e abbiamo fatto amicizia con il proprietario. Proprio lui ci ha detto: «Dovete assolutamente parlare con il signor Luigi! Ha un campo di pomodori e un sacco di problemi con la siccità, col gelo d’inverno che non c’è più». Allora siamo andati dal signor Luigi, che a sua volta ci ha indicato un’allevatrice di mucche, Carlotta. Siamo stati contenti perché ci premeva trovare qualcuno del primo mondo, che fosse italiano, e quindi più vicino allo spettatore.
Ciò che invece non è presente nel documentario è una riflessione critica sui modelli politici ed economici che sono causa dei cambiamenti climatici. Perché?
Abbiamo cercato di mantenerlo apolitico perché spesso tutto ciò che comporta il cambiamento climatico è confutato o meno per una questione di appartenenza politica. A noi interessava esplorare la scienza, i dati, i metodi attraverso cui si arriva a quei dati. Come dice nel documentario Antonello Pasini del CNR, il grosso problema è che, soprattutto in Italia, la scienza non è un argomento di conversazione e viene sempre visto come argomento astruso, inavvicinabile, non si conoscono i metodi con cui si arriva a certi risultati. Questo porta le persone ad aggrapparsi più facilmente alle bandiere politiche, o comunque a confutare dei dati e degli esperimenti reali semplicemente per appartenenza politica. Noi volevamo spezzare questo meccanismo.
È interessante perché un movimento importante come Fridays For Future, ad esempio, ha rilanciato una critica al capitalismo e al neoliberismo facendola però convivere con un approccio apartitico, trasversale, ecumenico che, forse, rischia di depotenziarne il messaggio…
Il mio punto di vista è che Fridays For Future sia un movimento un po’ “pop”, per quanto importantissimo. Poi tutti i fenomeni di massa sono abbozzati, poco raffinati dal punto di vista teorico e politico, se visti nella loro interezza. Ciò che interessava a noi in The Climate Limbo era parlare a chi non la pensa come noi, a chi nega i cambiamenti climatici, a chi pensa siano solo un cavallo di battaglia di sistemi politici diversi dai suoi. Per questo l’abbiamo definito così e abbiamo cercato di mantenerlo apolitico, anche se poi l’argomento in sé non lo è per niente. Il nostro lavoro però è costruire delle belle immagini, raccontare una storia e farlo nel modo più efficace e chiaro possibile. Il fine è che lo spettatore ascolti questa storia.