Luca Magi, con la sua opera seconda Storie del dormiveglia, sovverte il cliché del film a tema sociale e trasfigura le vite degli ospiti del Rostom in una confessione onirica semi-cosciente che dentro l’occhio della macchina da presa palpita e s’illumina.
A Bologna c’è il Rostom, un centro d’accoglienza per i senza fissa dimora con problemi sanitari. Persone che la cronaca giornalistica generalmente ignora, a meno che non ci sia di mezzo un delitto o una disgrazia, mentre il racconto d’arte tende spesso a “riscattarne la dignità” concentrandosi sull’epica iperrealista della miseria. Il Visions du Réel, festival svizzero tra i più autorevoli del mondo nel campo del “cinema del reale”, poi anche il Biografilm di Bologna, hanno premiato quest’anno Storie del dormiveglia, l’atipica prova seconda di un artista visuale che ha scoperto nel documentario la via più logica per condurre la sua ricerca libera d’autore d’immagini.
Luca Magi frequenta per sette anni la Scuola del Libro di Urbino ‒ la stessa dove hanno imparato Gianluigi Toccafondo, Simone Massi e altri riconosciuti autori dell’animazione d’artista italiana ‒; lì apprende le tecniche delle arti grafiche applicate al cinema d’animazione. Uscito dalla scuola, lavora un anno nella factory marchigiana della Rainbow, inserito nella catena produttiva di una delle serie animate messe in onda dalla RAI. Insoddisfatto, Magi passa al lavoro di grafico e illustratore, associandosi ad altri colleghi in uno studio indipendente. Ma cambia presto di nuovo e ricomincia come educatore in strutture diurne per disabili e adolescenti a rischio. In questo periodo iniziano le solitarie, segrete sperimentazioni con il video. Segue un altro triennio di studi all’Accademia di Belle Arti di Urbino ‒ progettazione multimediale ‒ e uno stage alla Stefilm, società di produzione torinese coinvolta nella rinascita del documentario italiano in quel fatidico inizio del secolo che segnò il principio di molte carriere e la riapertura di un orizzonte espressivo e riflessivo oggi sempre più ampio.
Così Luca Magi inizia a occuparsi di cinema documentario. Il primo spunto è In viaggio con Anita, un progetto di Federico Fellini mai realizzato. Nel 2012 è pronto Anita, esordio aereo e astratto scritto insieme ad Antonio Bigini, esplorazione postuma e immaginifica sulla medesima rotta del viaggio che i due protagonisti del trattamento del ’57 ‒ inventato da Fellini insieme a Tullio Pinelli con la partecipazione di Pasolini, poi venduto ad Alberto Grimaldi che lo farà dirigere a Mario Monicelli solo nel 1979, stravolgendone l’origine felliniana ‒ compiono nel centro Italia. Un esordio che è anche una presa di posizione, un ingresso in scena che manifesta già chiaramente i caratteri distintivi di un’idea matura di cinema. Mentre il film compie il suo giro festivaliero in patria e all’estero, Magi inizia un’altra esperienza, quella che lo spingerà verso un nuovo progetto.
A Bologna entra al Rostom e inizia a frequentarlo da operatore sociale notturno. La cooperativa che gestisce il centro gli chiede di realizzare un piccolo documentario che ne racconti le vicende interne: il regista sfrutta l’occasione per girare il film che già da qualche tempo ha iniziato a immaginare, espandendo il lavoro che avrebbe dovuto occupare una settimana appena a quattro anni, con l’idea di giungere alla fine a un lungometraggio che non si fermi alla piatta osservazione sociologica, ma che rifiguri i paesaggi esistenziali lasciandone proliferare la normale abbondante ricchezza. I primi due anni servono a cercare i protagonisti per il film tra quelli che trascorrono le notti al Rostom, raccogliendo e registrando i loro incontri, le loro storie, i loro lunghi tempi morti, accumulando volti e parole, contemporaneamente cercando i finanziamenti necessari attraverso la partecipazione a bandi e premi (Solinas, Corso Salani).
Dopo una prima fase quasi in solitaria, Magi inizia a scrivere con Michele Manzolini (che poi diventerà anche coproduttore con la sua Vez Film) e a montare con lo spagnolo Jaime Cousido, due delle quattro menti dietro Il treno va a Mosca, altro esordio documentaristico fuori canone uscito in quegli stessi mesi. Le suggestioni visive e le testimonianze raccolte iniziano a trovare una propria forma, viene l’incontro con David Stavros Onassis, e arriva una fondamentale intuizione. L’inglese, tra i frequentatori abituali del ricovero, tiene un diario dei suoi giorni per la strada: per questo diventa lui il narratore, la voce che nel film tesse tra loro come fili le storie degli altri protagonisti. Magi giunge poi alla decisione di portare la videocamera anche fuori dal recinto del centro, oltre il buio e il silenzio della notte, registrando immagini bruciate dal sole, sfocate e quasi irreali come se fossero i sogni diurni che gli ospiti del Rostom proiettano fuori delle sue chiuse stanze.
Nasce così Storie del dormiveglia, che classicamente sovverte il cliché del film a tema sociale, costruendo un raffinato e stilizzato racconto intimo e trasognato di alcune delle vite che passano attraverso il ricovero bolognese, trasfigurando anzi le loro storie brute e talvolta brutali in una sorta di confessione onirica semicosciente che dentro l’occhio della macchina cinema palpita e s’illumina. L’intento esplicito del film è lavorare su un luogo tipicamente relegato ai tra letti giornalistici della cronaca locale, alla vieta narrazione dell’indigenza come disagio, come accidente o come difetto, condizione rappresentata come estranea all’orizzonte del mondo urbano borghese, per costruirne un racconto formalmente raffinato nel quale la trita enumerazione delle storie disgraziate sia rovesciata in teatro segreto delle apparizioni e delle esistenze.
Più che un film astratto o antinarrativo Storie del dormiveglia è l’esperimento, il tentativo d’un film antirazionale, un film d’atmosfera che si articola tutto intorno alla modulazione di note emotive in una partitura che procede come lungo un crescendo verso un falso apice finale. Non c’è sviluppo del racconto perché quel che si racconta non è una storia sola, ma l’accumulo e il sedimento polverizzato di tutte le storie che sono passate e che non smettono di passare attraverso un luogo: quel che sta tra l’incipit quasi fiabesco e la chiusura incerta del sogno o della fantascienza ‒ quasi che il Rostom fosse diventato nel frattempo un’astronave o una fortezza spoglia e sicura ‒ è la sospensione temporale dell’attesa, sospensione del tempo nel quale il cinema scava le sue forme e scolpisce le immagini di un senso diverso.