Costruirsi un’alternativa alla criminalità, per far spazio ai propri sogni, risulta difficile quando si ha sedici anni e si vive una quotidianità complessa, come quella del Rione Traiano di Napoli. Nell’estate del 2014, un giovane sedicenne Davide Bifolco, perde la vita durante un inseguimento a causa di un colpo di pistola, esploso da un carabiniere che lo scambia per un latitante.
Sono amici fraterni, sedicenni anch’essi, Alessandro Antonelli e Pietro Orlando: i protagonisti del nuovo docu-film Selfie, del regista Agostino Ferrente. I due vivono a pochi metri di distanza, separati proprio da Viale Traiano dove si consumò la tragedia che colpì Davide.
Alessandro, figlio di genitori separati, abita con la madre e lavora in un bar. Ciò gli consente di vivere onestamente, in un quartiere dove lo spaccio costituisce un ammortizzatore sociale di facile accesso per giovani disoccupati. Pietro invece, un lavoro lo sta ancora cercando. Ha frequentato la scuola per parrucchieri, ma nessuno lo prende a lavorare con sé. Decide di non raggiungere la madre e i fratelli al mare, per passare l’estate al rione insieme al suo migliore amico e iniziare una dieta, rinviata ormai da tempo.
Presentato nella sezione Panorama della 69esima Berlinale, Selfie traccia una linea continua del percorso già avviato dal regista con Le cose belle in cui a far da sfondo erano sempre giovani adolescenti partenopei, in balia di speranze e incertezze nel passaggio alla maggiore età.
Girato nell’arco di un’estate, il film sperimenta quale tecnica di ripresa l’espediente del selfie consentendo ai due ragazzi che si auto-narrano, di annullare il filtro tra loro e il regista. É lui stesso a sostenere: “Non avevo intenzione di subappaltare, anche solo in parte, la regia del film. Ho solo chiesto ai miei protagonisti di essere al tempo stesso anche cameraman, col compito di auto-inquadrarsi, da me guidati, guardandosi sempre nel display del cellulare come fosse uno specchio”.
A muovere il regista è il bisogno di immersione diretta nella realtà cui intende dar voce, fino a diventarne parte. Da qui, la necessità di voler raccontare il contesto nel quale si era consumata la tragedia – di quell’ “Uno di meno” come recita lo stesso protagonista Alessandro – dal punto di vista di chi avrebbe potuto trovarsi al suo posto, i suoi stessi coetanei. Una focalizzazione, tutta incentrata sullo sguardo di questi ragazzi, per concentrarsi non su quello che tutti vedono e che tutti conoscono, ma sui loro occhi che osservano la propria quotidianità e il proprio universo.
Lo specchio e l’idea dell’auto-narrazione risultano avvalorate da un lavoro tecnico fatto sulle immagini delle telecamere di sicurezza e sui messaggi whatsapp che i due ragazzi si sono scambiati. Immagini gelide e indifferenti incombono su una realtà apparentemente immutabile, in cui ad alternarsi è la metafora della quotidianità con la sua stessa materializzazione.
L’aspetto emozionale e l’emotività, in luce dallo sguardo dei due adolescenti, si mostra senza filtri nelle scene di vita in salita, nel guardarsi allo specchio. Nel volto di Alessandro che non smette di filmarsi tra le lacrime, durante la cerimonia per la festa della Madonna dell’Arco, con la statua alle sue spalle. Nella voce commossa di Pietro che in apertura del film dice “Parla di morte”, riferendosi alla canzone neomelodica che si accinge ad ascoltare.
Un racconto in cui vige la messa in discussione, di una quotidianità fatta di piccole cose belle ma anche di grandi difficoltà. Il diverso aspetto legato ad esso divide i due protagonisti e consente di scorgere due livelli di realtà: quello di Alessandro a difesa delle sole cose belle del rione, poiché quelle brutte risultano già abbastanza trattate dalla stampa, e quello di Pietro deciso nel mostrare le complicanze cui loro stessi vanno incontro nel vivere una vita “normale”, in quel contesto. Pietro stesso sostiene: “La cosa bella del Rione Traiano è l’umanità che vi si trova all’interno. La cosa brutta, l’abbandono di questa umanità”. E Alessandro: “Il Rione Traiano per conoscerlo lo devi vivere perché è l’apparenza a renderlo malfamato, dall’interno non lo è affatto”. Non solo dunque, il racconto di quella realtà ma la voglia di poterla “riparare”, in qualche modo.
Un film fatto interamente di sguardi, anche per quel che riguarda le scene relative ai provini, in cui sotto l’occhio vigile del regista, appare il racconto originale di due ragazzine. Colpisce, la tranquilla lucidità con cui entrambe sebbene raccontino di voler lasciare il rione, non sognano un futuro roseo ma sanno già cosa le aspetta. La loro libertà finisce quando inizia il disincanto.
Predominante inoltre, la presenza di personaggi maschili a garantire una resa migliore della ricostruzione relativa al mondo di Davide, il cui gruppo di amici intimi era formato per lo più da maschi. Non a caso, molte delle scene sono state girate proprio nei luoghi dove il giovane era solito recarsi di frequente.
Il film, in uscita il 30 Maggio è prodotto da Art France e Magneto in co-produzione con Casa delle Visioni e Rai Cinema, in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà e il patrocinio di Amnesty International. Interessante, l’aspetto legato alla distribuzione con il contributo dell’Associazione ZaLab e il supporto del regista Andrea Segre.