In concorso nei giorni scorsi ad Alice nella città – Panorama Italia, Sacro moderno di Lorenzo Pallotta racconta l’Italia delle zone interne, dei borghi sperduti, della provincia più impervia e isolata che contribuisce in modo fondamentale a definire l’identità del nostro Paese.
Identità che non è solo geografica, architettonica, paesaggistica, economica, ma che è molto, forse soprattutto, antropologica. In un passato non così lontano la vita dei borghi è stata al centro della narrativa nazionale, non solo e non tanto di quella cinematografica, dentro e fuori i confini della produzione popolare. Al punto che su quella provincia è stata costruita una vasta gamma di cliché moderni divenuti ormai un consunto pezzo del nostro passato.
Oggi, con l’orizzonte urbano fin troppo al centro dell’orizzonte globale, l’universo delle “aree interne”, dei piccoli centri e delle piccole comunità è il teatro di una nuova ventata culturale che attraversa l’Italia da Nord a Sud, trapassando le arti, la società, l’economia e perfino la politica. La pandemia non ha fatto che accentuare una tendenza, accelerare un processo, gettare nuova luce su questa parte del Paese. Il cinema non è rimasto fermo.
Nei mesi subito precedenti l’inizio della crisi sanitaria, un piccolo gruppo di giovani stava muovendo i primi passi di una ricerca che nei giorni in cui scrivo è pronta a dare i suoi frutti più maturi. La ricerca di un filmmaker abruzzese che nella sua “piccola patria” – l’Abruzzo boschivo e montano nella provincia di Teramo – ha trovato la materia per forgiare un racconto sull’Italia contemporanea. Lorenzo Pallotta, classe 92’, viene dall’entroterra teramano; di lì si è spostato dopo il liceo, prima per un anno a Londra, poi per un periodo di formazione a Milano, al Sae Intitute, dove incontra il suo storico compagno di cinema Andrea Manenti, direttore della fotografia e operatore, infine a Roma dove negli ultimi anni ha iniziato la sua carriera da professionista, lavorando come assistente alla regia (accanto a Paolo Sorrentino per il corto su commissione Piccole storie romane, 2018) e produttore – partecipando tra l’altro alla fondazione della factory Limbo Film – oltre che come autore e regista.
Dopo alcuni cortometraggi – quasi tutti girati in Abruzzo – Pallotta, per il suo esordio nel lungometraggio, inizia a progettare un documentario sulla vita dei borghi dell’Appennino abruzzese centrato sulla dimensione rituale. Presto le persone che incontra e le loro storie lo spingono a cambiare parzialmente rotta. Inizia il radunarsi di un gruppo (che si coagula intorno al progetto di un lungometraggio a metà tra cinema a soggetto e documentario.
Lo sviluppo di Sacro moderno procede tenendo come riferimenti dell’avventura da una parte il punto di vista dei pochi giovani rimasti a vivere in quei territori – in particolare due fratelli che con le loro vite coprono l’arco anagrafico tra la prima pubertà e la fine dell’adolescenza -, dall’altra la dimensione arcaica, rituale, codificata e per questo quasi immutabile della vita all’interno delle piccole comunità di quei borghi.
Lontano dalle consuetudini del cinema nostrano, l’idea di film di Lorenzo Pallotta prende forma in uno spazio molto più frequentato dal cinema europeo: uno spazio che da una parte deriva e fiorisce muovendo dalla realtà bruta e documentale dei vissuti, dei gesti, delle storie delle persone riprese e di altre che aleggiano intorno all’inquadratura; dall’altra che lievita e si espande verso una modalità di racconto ordinato da una scrittura e sorvegliato da una messa in scena.
Sacro moderno si segnala per l’assoluta e quasi brutale indipendenza – che grazie al lavoro del piccolo gruppo di giovani, e in particolare grazie alla lena di Andrea Rosasco, produttore da poco fuori dalle aule del Centro Sperimentale di Roma, troverà senz’altro esiti felici -, per il localismo universale immediatamente comprensibile a una platea internazionale e in tutto opposto al provincialismo di tanta narrativa cinematografica d’autore intraducibile e incomprensibile appena superato il confine; per una lucidità sul contemporaneo che ignora i cliché della provincia, anzi, la provincia dei cliché, e sprofonda – tra dramma moderno, tragedia arcaica, e mistero teatrale – nella nebbia dell’Italia strapaesana più oscura e indicibile, vissuta da molti, narrata da (quasi) nessuno.