Dopo l’anteprima mondiale al prestigioso Festival Visions du Reel di Nyon lo scorso aprile, Rondò final è ora in concorso nella 62° edizione del Festival dei Popoli a Firenze (20 al 28 novembre).
Rondò final (di Gaetano Crivaro, Margherita Pisano e Felice D’Agostino) è un’affascinante avventura cinematografica che dietro la vieta etichetta del documentario etnoantropologico o di quella del film d’archivio, tutte e due tecnicamente corrette e contemporaneamente del tutto inadeguate, cela una doppia eccezione, due diverse ragioni d’interesse che sono in realtà le due fasi di un unico processo. Da una parte la forma non convenzionale di un film rigoroso che da una struttura quasi geometrica sublima in direzione di un onirico poema politico; il risultato si potrebbe dire, dall’altra parte, di un modus operandi fuori della norma, collettivo e anarchico, dialettico, ma non mirato alla sintesi. L’esito dell’incontro e degli sforzi congiunti, tra l’altro, di due coppie di filmmaker: Felice D’Agostino e Arturo Lavorato (calabresi, meridionalisti, tra i più rigorosi, colti e originali autori di documentario di questi anni), Margherita Pisano e Gaetano Crivaro (compagni d’arte e di vita, sarda lei, calabrese lui anche se trapiantato sull’isola da una decina d’anni, ricercatori e artefici di cinema viandante) riuniti a lavorare in Sardegna.
All’origine del film l’immagine di una visione, la visione di un’immagine: una lunghissima processione che si snoda sullo sfondo vicino di un gigantesco impianto industriale. È il 2014, Pisano e Crivaro intercettano la processione della festa di Sant’Efisio – celebrazione tradizionale sarda che si ripete ormai senza interruzioni da più di trecentosessant’anni muovendo un corteo religioso per molte decine di chilometri tra Cagliari e Nora e ritorno, per sciogliere il voto del 1652, quando il santo liberò la città dalla peste – e iniziano ad accumulare i primi materiali autoprodotti senza ancora una meta cinematografica precisa. Nel 2018, con il coinvolgimento di D’Agostino, Lavorato e Massimo Carozzi, inizia un periodo di laboratori, ricerche negli archivi fra cui soprattutto la Cineteca Sarda, esperimenti, incontri che pochi mesi più tardi darà l’origine al progetto del film.
I titoli di coda di Rondò final spiegano in sintesi la natura del processo. Si legge: «Un film a staffetta, ideato, sognato, incominciato e coordinato da Gaetano Crivaro e Margherita Pisano»; e poi «smontato, discusso, montato e rimontato dall’Assemblea di Montaggio composta da: Luca Carboni, Alberto Diana, Margherita Riva, Vittoria Soddu» oltre ai quattro succitati autori; e infine «accordata, ispirata e coordinata da Arturo Lavorato e Felice D’Agostino».
Tra il ’18 e il ’20 si selezionano riprese d’archivio di diverse origini, in diversi formati (pellicola, VHS, file digitali), si gioca a tagliarli e combinarli aprendo su questo lavoro un confronto e un dibattito a più voci; si registrano anche nuove riprese visive e sonore, in formati analogici e digitali, e li si “mette nel mucchio” concettualmente confondendoli con gli altri, raccogliendoli in un unico grande blocco di materia dalla quale far emergere la forma di un’idea. All’inizio della pandemia in tre – Pisano, Crivaro e D’Agostino – prendono in mano i trenta minuti circa lievitati fin là e rifiniscono una versione definitivamente temporanea del film che diventa un mediometraggio lungo.
Un modo inconsueto e di fatto “fuorilegge” per fare del film una forma che produce pensiero e che è al contempo risultato di un lavoro, e officina nella quale questo lavoro ha luogo. Il lavoro è il gioco di scritture sovrapposte, manipolazioni e manomissioni, confronti e giustapposizioni che per un verso rendono il materiale d’archivio nuovo e lo dirottano nella direzione del discorso dei suoi nuovi autori; per l’altro espropriano i materiali (i nuovi e i vecchi, visivi e sonori, più i secondi dei primi) dalla patria potestà di chi li ha realizzati, allontanandoli come nel tempo sospeso del sogno. Una direzione più esplicita al discorso aperto proposto dal film la danno due voci: una femminile l’altra maschile, una italiana, l’altra straniera, una che rilancia l’omonimo testo di Sergio Atzeni dedicato alla festa del santo (contenuto in I sogni della città bianca), l’altra che getta su quelle immagini le parole di Frantz Fanon (I dannati della terra), usate come motori per la trasfigurazione concettuale del materiale documentale.
Come in una trance ossessivo-riflessiva, teorie di volti e di corpi attraversano lo schermo da una parte all’altra, ripresi da lontanissimo e da vicinissimo: attraversano la durata di un’inquadratura, attraversano cent’anni di liturgie civili sovrapposte a quelle religiose, cent’anni di processioni oranti, di cortei ippici, di danze del potere che si dispongono nel mezzo del rito innescando un gioco di campi e controcampi tra sacro e profano. Un cerchio che diventa spirale, uno schema che sembra ripetersi ma che non torna mai identico a se stesso e che anzi cambia a ogni ciclo spostandosi su un nuovo livello formale, tecnologico, ideale.