Perla Sardella è un’artista visiva e una documentarista di grande talento, divisa tra le Marche e la Lombardia. Collabora con varie produzioni audiovisive come autrice, operatrice e montatrice. Ha esordito con il cortometraggio Comfort Zone nel 2015 ma si è fatta notare nei festival con il documentario Prendere la parola nel 2019 sul tema delle donne e le migrazioni. Nel 2020 ha realizzato Le Grand Viveur lavorando con i materiali d’archivio del cineamatore Mario Lorenzini; un film di found footage delicato e ipnotico che riflette sulla solitudine di un uomo che si appassiona al cinema dove il cinema non sembra poter esistere.
Quando hai capito di voler fare documentari e non opere di fiction?
Non volevo aspettare i tempi né rispettare i modi di fare cinema di finzione, ho sentito la necessità di provare subito a filmare e a montare i miei lavori, anche a rischio che il risultato sembrasse troppo artigianale. Questa libertà di azione va purtroppo a braccetto anche con la pochezza delle risorse e dei mezzi che ho a disposizione. Oggi è più difficile mantenere questo equilibrio perché non lavoro più da sola ma con vari collaboratrici e collaboratori. Faccio un altro lavoro, come tante e tanti documentariste e documentaristi, perché non è facile rendere il cinema documentario il proprio mestiere. Come secondo lavoro invece è molto comune. Non penso dovrebbe essere così difficile ma invece lo è.
Cosa innesca il tuo processo creativo?
Mi fisso su qualcosa che sento o che leggo e penso a cosa potrebbe raccontare l’impatto che quella frase ha avuto su di me. Per Prendere la parola è stato uno stralcio di una recensione di Diamante nero di Pietro Bianchi: «Normalmente a un subalterno non viene chiesto di parlare d’amore, d’arte o di bellezza, o di parlare di cose genericamente umane: gli viene chiesto di raccontarci soltanto della sua sofferenza e della sua esperienza di vittima». Per Le Grand Viveur una frase di Tondelli: «Ti guardo ti guardo ma mi pare di non averlo fatto mai». E poi filmo (o monto) subito, non aspetto mai. Mentre all’inizio questa fretta di filmare mi poneva in una condizione di isolamento, ora ho imparato a confrontarmi con le persone che lavorano con me. Questa idea, del confronto e dell’ascolto, cerco di portarla anche nel modo di filmare.
Nel 2019 hai girato per Berenice Film Prendere la parola. Il tuo è uno sguardo molto discreto su alcune donne straniere che, durante le loro lezioni d’italiano, scoprono e riscoprono il senso delle cose, delle parole, senza tagliare via gli inciampi, gli errori. Che tipo di lavoro hai compiuto, hai parlato con loro o ti sei posta nell’invisibilità per non condizionarle?
Ho condizionato la loro lezione di italiano e loro hanno condizionato la mia idea di partenza, assolutamente irraggiungibile, di nascondermi tra loro. Penso che alla fine poi sia questa l’idea da scardinare del documentario d’osservazione: che siamo mosche sul muro che non intervengono. Per me documentario d’osservazione significa più che altro esplicitare il rapporto tra chi filma e chi è filmato, rendere comprensibile dove mi posiziono e qual è il mio ruolo all’interno di quella situazione. Fingere di non esserci è rompere un patto, e per me è un problema. Io con loro avevo questo patto: ho chiesto di poterle filmare soltanto quella mattina e si sono preparate come meglio hanno creduto. Alcune si sono truccate e vestite bene. Per me l’autodeterminazione è fondamentale, anche se maschera quella pretesa di oggettività che cerchiamo noi documentariste/i, aver dato loro il tempo e il modo di scegliere come presentarsi a me (e al mondo) era il senso di questa scelta.
Mentre nel 2020 hai realizzato Le Grand Viveur. Mario Lorenzini si è lasciato alle spalle un archivio segreto girato in Super 8, ha ripreso gli anni ’60 e ’70, la comunità dei Walser, la vita quotidiana del paese tra scene di caccia, ballo e nevicate, almeno fino all’auto-isolamento sulle montagne.
L’idea era quella di guardare le immagini di film di famiglia (i Super 8) di un cineamatore come se invece fossero di un autore. Quello che mi proponevo di fare era di cercare uno sguardo, una cifra stilistica e delle tematiche dietro un tipo di materiale che nasce come amatoriale. Con Lorenzini è stato facile farlo, filmava molto bene. Ha lasciato all’archivio Superottimisti di Torino due ore e mezza di materiale, non tantissimo, già quasi interamente editato. Non aveva una famiglia, e questo rende impossibile per lui fare del vero e proprio cinema di famiglia, si deve rivolgere per forza all’esterno, e il suo esterno è la comunità Walser del Piemonte, al confine con la Svizzera. Sono stata nel suo paese e ho visto i suoi luoghi, ma non ho potuto conoscerlo, purtroppo. Per questo il film parla di come lo sguardo di una persona esterna vede e legge le immagini di una persona sconosciuta. I testi, inseriti come sottotitoli, sottolineano proprio questo tentativo di tradurre delle immagini e cercare di dar loro un senso e una spiegazione. Cosa che chiaramente rimane un tentativo, un’ipotesi.
Su Le Grand Viveur hai compiuto anche un lavoro molto preciso sul tappeto sonoro, realizzato dal gruppo I conniventi: a degli elementi extradiegetici sono stati aggiunti una serie di suoni diegetici quasi impercettibili, creando una forte suggestione.
L’idea era di usare il sonoro ma dare l’impressione di un film muto. Non è un caso se tante persone pensano che effettivamente lo sia. Un rumore di fondo ci accompagna per tutto il film, a volte si amplifica, a volte si allarga, a volte quasi scompare, a questo si aggiungono, dici bene, dei suoni che sembrano diegetici. Sono dei fantasmi che appaiono dal passato e provano ad entrare nel tempo presente. Li ho fatti un po’ penare, Alessio Maramao e Davide Minotti (i due Conniventi) perché cercavo sempre di far abbassare i volumi. Non sono abituata a lavorare con suoni extradiegetici, lavorare con loro è stato magico perché ho sentito per la prima volta un tappeto sonoro che esplicitava perfettamente quello che le immagini non riuscivano a fare.
Hai realizzato Le Grand Viveur all’interno della residenza artistica Re-framing Home Movies, un anno di lavoro dentro alcuni archivi di film di famiglia tra Bergamo, Cagliari, Torino. Com’è stata questa esperienza?
Totalizzante! La consiglio a chiunque voglia accostarsi in modo critico alle immagini d’archivio e specialmente a quelle dei film di famiglia. Le immagini sono sempre materiale sensibile, sono sempre politiche, è stato bello poterne parlare per sei mesi insieme. Ma soprattutto ho conosciuto persone senza le quali ora mi sembra impossibile lavorare e vivere.
A cosa sta lavorando adesso Perla Sardella?
Sto lavorando a due progetti. Uno sarà un lungometraggio documentario, parla di un collettivo di portuali del Porto di Genova che si rifiuta di caricare e scaricare materiale bellico dalle navi. La questione, oltre che etica, è anche sindacale, per questo mi sto concentrando sul come la parola organizza la lotta di questo gruppo di lavoratori e di quello che riescono ad ottenere poi di concreto. Sarà un documentario a più voci, stratificato come è stratificata la storia di Genova e le sue strade in salita. L’altro è un cortometraggio che sto realizzando con un’altra regista, Giulia Cosentino, mia compagna alla residenza di Re-Framing, con le immagini dell’archivio di film di famiglia della Fondazione Museo Storico di Trento. È una storia d’amore (impossibile) tra due donne a cavallo tra gli anni ’40 e ’50. Siamo partite da un romanzo, Therese e Isabelle, della grandiosa, ma sconosciuta, Violette Leduc. Stiamo lavorando a un film con due capitoli in cui, alternate, ognuna è protagonista: una lettera che entrambe si scrivono. Siamo entrambe transfemministe e questo entra sempre nei nostri lavori. In questo caso stiamo ragionando sul corpo, e specialmente sul fatto che i corpi delle donne sono sempre stati filmati dagli uomini, raramente dalle donne. Questo è amplificato nella storia dei film di famiglia in cui è quasi sempre l’uomo ad avere in mano la cinepresa e a filmare. Stiamo provando a ribaltare questa prospettiva.