La prima cosa che noto del documentario “Sassi nello stagno” sono i titoli di testa, che mi fanno subito venire in mente i B-Movie degli anni ’50 e ’60, ovvero qualcosa di originale, dimenticato e visionario. E non è un caso, perché poco dopo scopro che Luca Gorreri, documentarista emiliano, è un grande estimatore di colui che è stato definito il “peggior regista della storia del cinema”, Edward D. Wood Jr. E infatti Gorreri con questa sua opera prima, completamente autoprodotta, si pone lo stesso obiettivo, ridare voce a un festival che in tanti conoscono ma in pochi ricordano, il Festival del Cinema di Salsomaggiore Terme (1980-1991).
Negli anni ’80 questa manifestazione, nata da un’idea di Giuseppe Bertolucci e dal fermento culturale del Filmstudio di Roma, fu qualcosa di davvero innovativo e sperimentale che riuscì a smuovere le acqua di un clima culturale immobile sempre rivolto al passato e al già visto: quello di Salsomaggiore era infatti un festival di profonda rottura coi festival tradizionali e fu subito accusato di essere un’iniziativa per addetti ai lavori, troppo elitaria, senza divi, che proponeva un cinema scommessa. La verità è che fu una fucina del nuovo che fece conoscere in Italia artisti del calibro di Jean-Luc Godard, Samuel Fuller, Amos Gitai, Jim Jarmusch, Otar Ioseliani, Aki Kaurismaki e dove esordirono registi italiani ora molto conosciuti come Marco Tullio Giordana, Fiorella Infascelli, Silvio Soldini, Marco Bechis e altri.
Ma Sassi nello stagno è anche una profonda riflessione sui festival in generale e le parole più lucide e ispiranti le pronuncia Enrico Ghezzi, che dopo aver ricordato Marco Melani come una delle menti più «vivaci e straripanti» che animarono il festival dice «il massimo che può fare un festival è trattare e amare i film come si trattano e si amano le persone», e viceversa.
Luca, cosa ti ha spinto a voler realizzare il tuo primo documentario su un festival dimenticato?
Una semplice curiosità. Mi affascinava il fatto che questo festival lo conoscessero in tanti ma lo ricordassero in pochi. È assurdo. Io e Stefania, la mia compagna, discutiamo sempre di cinema, e abitando a Salsomaggiore un giorno ci siamo ricordati di questo festival, anche se all’epoca avevamo solo dieci anni. Volevamo sapere com’erano andate le cose. Così ho fatto delle ricerche su internet e nella biblioteca di Salsomaggiore, ma non ho trovato niente. Allora ho provato a inserire delle parole-chiave nelle biografie di vari artisti all’epoca emergenti che avevano partecipato a questo festival e avevano ricevuto un riconoscimento o un premio. Man mano che vedevo i nomi degli artisti, primo fra tutti Godard, la mia curiosità cresceva sempre di più, così ho fatto un percorso a ritroso e ho scoperto chi erano gli organizzatori: Adriano Aprà, Patrizia Pistagnesi, Luciano Recchia… li ho contatti e ho organizzato le interviste.
Sassi nello stagno è completamento autoprodotto. Com’è stato il percorso produttivo?
Ho fatto tutto in completa autarchia, il film me lo sono finanziato da solo con la liquidazione. La troupe era minima: sul set c’eravamo io, Stefania Pioli, che si è occupata del montaggio, delle luci e della ripresa audio in diretta, Fausto Tinello, che si è occupato della post produzione dell’audio e Simone Manuli che ha scritto le musiche originali. Ed è andato tutto bene, Aprà e gli altri fin da subito sono stati molto disponibili con noi. Lavorare così è stupendo perché non devi scendere a compromessi con nessuno. Sei libero di dire e fare ciò che vuoi. Se hai un’idea forte e un budget medio basso come il mio tutto è possibile. I problemi sono iniziati dopo. Quando si è trattato di distribuirlo e contattare i critici. Questo è stato il vero scoglio, che è quasi insormontabile. Ho scritto a molti festival, il documentario è stato presentato al Lecce Film Fest ed è stato selezionato ai David di Donatello, poi ho contattato centinaia di critici e di cinema ma le risposte sono state poche.
Eppure l’accoglienza critica è molto positiva. Come ti spieghi questo grosso divario fra critica e distribuzione?
Il documentario piace molto, ci sono recensioni con toni entusiastici, però c’è un forte divario fra la critica e il resto. Per ora sono riuscito a realizzare tre proiezioni: a gennaio al teatro Flavio di Roma all’interno della rassegna Indipendentementi – che promuove il cinema nascosto che altrimenti non vedrebbe mai la luce – poi a Parma al cinema Edison – altro cinema che ha un occhio di riguardo per le produzioni indipendenti (al gestore è piaciuto talmente tanto che l’ha messo in programmazione) – e infine a Salsomaggiore, dove è stato accolto bene e ha smosso un po’ le acque. Sono molto felice di questi tre incontri, però mi piacerebbe farne altri. Sono convinto che questo film abbia bisogno del passaparola.
Lo stile, fin dai titoli di testa, ricorda quello dei B-Movie, in omaggio a Ed Wood. Ti ispiri, in qualche modo, a questo personaggio?
Tutto lo stile è un omaggio al vintage degli anni ’50 -’60. Amo il personaggio di Ed Wood perché era un genio senza talento, una figura di perdente che mi piace, come tutti gli artisti che hanno vinto ma solo dopo che sono morti, come Edgar Allan Poe, tutti artisti che nella vita hanno patito le peggiori chimere e poi sono stati riscoperti dopo la morte. Questa cosa ha un fascino tutto suo, per questo tutto il film è un omaggio al genere dei B-Movie, perché anche loro sono stati riscoperti tardi.
Progetti futuri?
Voglio continuare a fare cinema, “mangio cinema” come diceva Enzo Ungari, vivo di quello, però non mi sento portato a fare finzione. Mi piace partire dal reale e magari metterci qualche scena di finzione come ho fatto in questo lavoro, usando delle metafore visive per raccontare meglio la realtà. Ma ciò che voglio raccontare è il reale, quello che succede veramente.