Su un monumento funebre del V secolo a.C. ritrovato a Paestum, un atleta è colto nell’atto di tuffarsi in uno specchio d’acqua, allegoria del trapasso ultraterreno. È partendo da questa immagine che Yan Cheng e Federico Francioni, giovani autori entrambi provenienti dal Centro Sperimentale di Cinematografia/Scuola Nazionale di Cinema – Sede Abruzzo, hanno realizzato il loro documentario creativo Tomba del Tuffatore.
«Il progetto – spiega Francioni – nasce nel 2014 da una collaborazione tra il Centro Sperimentale e il Ravello Film Festival. Parallelamente alle attività di copertura per il festival – concerti, interviste, eventi – agli allievi è stata data la possibilità di realizzare i loro saggi di secondo anno nell’ambito del festival».
Nel doc, il Tuffatore di Paestum (simbolo della cultura greca) compie il suo passaggio dalla vita alla morte, dal mondo fisico al quello metafisico, e nella sua caduta guida lo spettatore in un viaggio poetico e cinematografico alla scoperta dell’architettura, della storia e, soprattutto, del vuoto postmoderno nella Costiera Amalfitana: ai panorami mozzafiato, alle rovine storiche delle splendide ville di Ravello fanno da contraltare le cartiere abbandonate di Amalfi, le immagini della demolizione dell’Ecomostro di Alimuri, il turismo passivo.
«Io e Yan Cheng – prosegue Francioni – conoscevamo già l’immagine del Tuffatore di Paestum. Il tema ci affascinava molto, abbiamo deciso anche noi di “tuffarci” dentro la realtà, e di esplorare quanto più possibile un territorio così contraddittorio e ricco – dalle antiche cartiere abbandonate fino alle gare di tuffi del Fiordo di Furore. Ci siamo messi in “ascolto” della realtà, per catturare i segni autentici e più significativi di questo salto verso l’altrove. Il tentativo era quello di inserirsi tra le pieghe del confronto tra antico e contemporaneo, tra il mondo mitico e quello mercificato del turismo di massa; tra i colori del paesaggio e certe tonalità di arancione fosforescente di scarpe o vestiario che a volte neanche la camera riusciva a captare. Ci è sembrato quasi di tornare al cinema degli albori, alle “sinfonie urbane” di inizio secolo».
Arricchito dalla partecipazione straordinaria di Maria Pia De Vito e del gruppo “Il Pergolese”, Tomba del Tuffatore è una parabola sul contemporaneo che si chiude lasciando aperta la domanda da cui prende le mosse film: dove precipita, veramente, questo Tuffatore contemporaneo?
Il film è stato presentato in anteprima alla 52° Mostra Internazionale del Film di Pesaro, debuttando «con grande onore da parte nostra – precisa Francioni – in una nuova sezione che credo sarà molto importante nei prossimi anni, Satellite, una sorta di ricognizione “emotiva” del nuovo cinema italiano sperimentale, il più delle volte invisibile o nascosto, dove si può trovare una grande energia per il futuro», approdando poi al Napoli Film Festival, al Linea d’Ombra di Salerno e, recentemente, al MedFilmFest di Roma «accolto sempre molto bene, tanto che recentemente siamo finiti anche nella Top Ten dei migliori lavori audiovisivi dell’anno de Il Manifesto, curata da Bruno Di Marino».
Una sensibilità e uno sguardo attento sulla realtà quotidiana che riconosce un debito nei confronti della formazione avuta in una delle sedi meno note del Centro Sperimentale di Cinematografia: «A essere sincero la prima reazione dopo essere stato rifiutato dalla sede di Roma e dirottato a L’Aquila, è stata di panico. Il corso, dall’esterno, sembrava declinato in una sorta di reportage televisivo che nessuno voleva fare, e l’idea di andare a vivere in una città terremotata per tre anni non era allettante. Nel giro di qualche settimana abbiamo capito non solo di esserci sbagliati, ma di essere stati toccati dalla fortuna. Il corso – che purtroppo oggi non esiste più e si è trasformato in altro, per totale indifferenza della sede romana – all’epoca era gestito da Stefano Gabrini, Edoardo Dell’Acqua e Giovanni Oppedisano: tre preziosissime persone con una sensibilità verso il cinema veramente rara da trovare, che in tre anni ci hanno veramente trasmesso insegnamenti di vita. In poco tempo il corso si è subito caratterizzato per un’attenzione non soltanto alla realtà, a quel famoso cinema del reale di cui oggi si fa un gran parlare, ma soprattutto verso l’autenticità».
«Questa impostazione, all’apparenza così evanescente, ha portato a risultati molto concreti: per la prima volta un film del Centro, Moj Brate di Nazareno Nicoletti (un lungo! cosa impensabile per gli allievi di regia di Roma) è riuscito ad entrare nel concorso “Cineasti del Presente” a Locarno. Oltre a lui poi, nel giro di due anni, ci sono stati film che hanno partecipato a “Visions du Reel”, a “Docunder 30” e tantissime altre realtà di peso del circuito italiano ed Europeo».
Una cura e un’attenzione che spesso pagano il fio di una sede decentrata, al di fuori del circuito nazionale: «Chi frequenta le sedi regionali del CSC si sente a volte “di serie B” rispetto ai corsi di Roma: ci si sente isolati o trascurati, e difficilmente si riescono a capire alcune scelte (come quella per esempio di sopprimere il nostro corso). L’aspetto positivo però è che si può esercitare una libertà espressiva maggiore, e soprattutto ci si confronta con tutte le fasi della creazione: siamo in grado di montare, girare, usare un microfono a livello professionale, riuscendo a instaurare un dialogo proficuo con i professionisti del settore e a capire dall’interno quali possibilità espressive possa consentire la tecnica».