«Sulla transizione manca una narrazione, ma credo che stia arrivando uno tsunami linguistico, culturale, legale» avverte Nicolò Bassetti. Un preavviso dello tsunami è il suo nuovo lavoro, Nel mio nome, documentario che racconta il delicato percorso intrapreso da quattro amici che, in quel di Bologna, hanno scelto di abbandonare il genere femminile per quello maschile.
L’idea per il film, presentato alla Berlinale e in un’uscita-evento dal 13 al 15 giugno nelle sale italiane con I Wonder Pictures, è nata grazie al figlio di Bassetti che, una notte, gli ha scritto annunciandogli di aver deciso di intraprendere il percorso per il cambio di sesso. «Mi ha scritto parole coraggiose per rassicurarmi, mi chiedeva di non avere paura, di credere in lui, di seguirlo. Usava maschile e femminile, il suo linguaggio dava segnali molto importanti». Dopo lo spaesamento iniziale Bassetti, qui al secondo documentario, ma con alle spalle una carriera come paesaggista-urbanista che lo ha portato a concepire Sacro Gra di Gianfranco Rosi, ha deciso di far tesoro dell’esperienza familiare traendone un film. I paletti non sono stati pochi, in primis la regola ferrea di non far apparire il figlio nella pellicola, anche se il suo contributo è stato fondamentale nel guidare il regista alla scoperta della piccola ma vivace comunità transgender di Bologna.
In un incastro di attimi di verità, Nel mio nome racconta il quotidiano di Nico, Leo, Andrea e Raff mentre affrontano il percorso che li porterà alla transizione, con tutti i problemi emotivi, legali, sociali che la scelta comporta. Il film immerge fin da subito lo spettatore nella vita dei quattro giovani senza fornire spiegazioni. La storia si dipana pian piano, scena dopo scena, alla ricerca dell’immediatezza. Come chiarisce Nicolò Bassetti, «la scrittura del film è stata fatta tutta al montaggio, la struttura invece l’ho decisa a priori insieme a mio figlio dandoci dei principi. Volevamo stare alla larga dagli stereotipi perché è facile caderci dentro inconsapevolmente. Mio figlio è stato il mio mentore, mi ha aiutato e mi ha messo in guardia. Mi ha permesso di cercare la bellezza al di là della divisione del mondo per generi, raccontando anche la sofferenza, ma mettendola sullo sfondo. In primo piano volevo porre la dignità, la forza della vita e la felicità dei protagonisti nel riuscire a uscire da ruoli predeterminati e non scelti per trovare il loro io».
Un lavoro lungo, complesso e delicato che ha richiesto in totale tre anni. «I primi mesi sono stati di ricerca, poi ci sono due anni di riprese e sei mesi di post-produzione di cui quattro di scrittura al montaggio. Ho girato pochissimo, 60 ore in due anni, è stata una sfida enorme. Accendevo la telecamera solo quando era estremamente necessario, quando sapevo che avevo trovato il momento. Nel mio nome è un documentario al 100%, contiene solo la vita reale».
La regia di Nel mio nome denuncia una sobrietà dello sguardo che appartiene a Bassetti e diventa cifra stilistica del film: «Cerco sempre di lavorare a macchina fissa, su cavalletto, e di scegliere l’inquadratura al cui interno accadono più cose. L’idea è sempre quella di generare quadri. La scelta dell’inquadratura richiedeva anche settimane, osservavo i personaggi per giorni e giorni, stavo con loro, ne seguivo i movimenti, scattavo foto col cellulare e poi le studiavo. Tutto alla ricerca della bellezza».
Il messaggio lanciato da Nicolò Bassetti è chiaro: «Ormai il mondo binario è obsoleto, non regge, non accetta la ricchezza che è strabordante e decolonizza i corpi. Oggi i ragazzi sono più liberi di scegliere chi sono a prescindere dal ruolo che viene imposto loro alla nascita. Non è più necessario performare mascolinità e femminilità, la cui crisi ha portato ad eccessi. Da un lato la mascolinità volgare, insopportabile, prossima alla violenza che sfocia nei femminicidi, dall’altro le femministe radicalizzate su posizioni insostenibili, come J.K. Rowling, le quali sostengono che la femminilità sia un fatto biologico e non culturale. Trovo che questa sia una colossale stupidaggine».
Se proprio la Rowling, citata da Bassetti, si è inimicata mezzo mondo con le sue posizioni transfobiche, il regista ha trovato sponda per il suo lavoro in un’altra celebrità che ha reso pubblica la sua transizione poco tempo fa. Si tratta dell’attore Elliot Page che, dopo aver visto Nel mio nome, si è proposto come produttore esecutivo del documentario. Un incontro fortuito e anche un po’ magico. «Tutto merito della mia produttrice Gaia Morrione» confessa Bassetti «che è stata tenacissima e ha provato in tutti i modi a contattare lo staff di Page fino a quando non ha trovato un aggancio. La persona in questione, anche lui trans, ha visto il film, gli è piaciuto, e lo ha fatto vedere a Elliot. Dopo la visione lui mi ha mandato una mail che mi ha lasciato senza parole. Mi ha scritto “ho visto Nel mio nome, l’ho amato molto e mi sono identificato nei personaggi. Cosa posso fare io per questo film?”. Gli abbiamo risposto “scegli tu, qualunque cosa” e così si è proposto come produttore esecutivo senza volere niente in cambio».
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