Il suo maestro è Herzog e il cinema che gli interessa fare è un cinema povero, fatto di sguardo. Enrico Maisto, classe 1988, ci racconta la Milano degli anni di piombo nella sua opera prima, Comandante.
Lo chiamo alle 19.30 e mi butta giù il telefono “È appena iniziata la premiazione di Cannes. Ci sentiamo fra mezzora”. E io che me ne stavo quasi dimenticando. Enrico Maisto, 26 enne milanese, l’ho conosciuto nella sala d’aspetto del ricevimento della nostra relatrice “in comune” per la tesi magistrale. Sembrava sempre di fretta, probabilmente perché aveva qualcosa di più importante da fare. Questo qualcosa si chiama Comandante, è la sua opera prima e ha vinto il premio Aprile allo scorso Milano Film Festival. A leggerne la trama, ci si domanda come mai un ragazzo così giovane abbia deciso di girare un documentario su un pezzo di storia d’Italia che non ha vissuto e su cui si è detto più o meno tutto. Eppure lui ci riesce, a dire qualcosa di nuovo su un periodo così complesso, attraverso uno sguardo curioso e originale. Ma la missione del giovane regista non è l’analisi storica, né quella politica. Lui ricerca la verità e lo fa con l’occhio indagatorio della sua macchina da presa. Comandante racconta, prima di tutto, una storia di amicizia, quella fra Felice Esposito, meccanico e militante di Lotta Continua, e Francesco Maisto, padre del regista, che negli anni di piombo è stato giudice di sorveglianza al carcere di San Vittore. L’indagine storica si trasforma ben presto per Enrico in un viaggio alla scoperta di due personaggi radicalmente opposti ma mossi dalla stessa ambizione, quella di fare giustizia.
Comandante, girato con i pochi risparmi del regista e una piccola campagna di crowdfunding, è un film che vuole ritrovare i ricordi di un’infanzia ormai andata, è un film nostalgico, ma è anche un film sull’amicizia e sulla comunicazione, sul giusto vivere, sull’amore per la vita contro la violenza e la morte, e sull’immagine che un figlio insegue del proprio padre, come dice la voce fuori campo di Enrico alla fine del film.
Enrico, raccontaci dalla tua formazione. Come sei arrivato al cinema?
Ho sempre avuto la passione del cinema fin da piccolissimo, però mi sono buttato subito sull’aspetto realizzativo. L’idea di confrontarsi col lungometraggio mi attirava, quindi ho voluto provarci fin da subito. Ho fatto dei lavori al liceo, ma la finzione mi stava un po’ stretta, non ero mai soddisfatto del risultato. C’era sempre qualcosa che non funzionava, per cui in realtà l’avvicinamento al documentario è arrivato quando Bellocchio mi ha affidato il backstage di Vincere, nel 2008, e quello è stato il primo lavoro che assomigliava di più a un’esperienza di tipo documentaristico. E poi in quel periodo ho scoperto il cinema di Herzog che mi ha dato un nuovo modo di pensare il film e l’atto di filmare in sé, come qualcosa di più ampio rispetto al tradizionale film di finzione. Mi ha aperto un nuovo universo di possibilità. A me piaceva molto l’idea di un cinema fatto con pochi mezzi, povero, essenziale. Un cinema fatto di sguardo, dove sei tu e la macchina da presa.
In questo tuo primo film, infatti, s’intuisce fin dalle prime inquadrature che la tua missione è quella di indagare, di ricercare la verità. A un certo punto dici che il tuo tono “inquisitorio non ti soddisfa più”, forse perché quello che vuoi realizzare è un film dove apparentemente si parla di Storia con la esse maiuscola, ma che in realtà narra una storia personale, quella della tua famiglia. Si può dire che più che un film politico/storico sia un film familiare?
Assolutamente, infatti molte persone rimangono deluse quando si aspettano quel tipo di analisi storico/politica. No, la mia è un’indagine intima, familiare e personale, si muove su quel terreno, non è un film che intende riscostruisce la storia. La camera è sia inquisitoria, sia uno strumento dietro il quale ti nascondi, ti proteggi, proprio per riuscire a porre delle domande.
Inizialmente il film doveva incentrarsi su Felice, una figura molto importante della tua infanzia, che hai voluto ritrovare e raccontare attraverso le immagini. Poi a un certo punto hai capito che doveva entrare in scena anche tuo padre. Che cosa ti ha fatto cambiare il progetto iniziale?
Molto semplicemente è stato il momento in cui Felice mi ha raccontato che c’era un progetto… alcuni terroristi volevano uccidere mio padre, e lui era intervenuto per dissuaderli da questa iniziativa. Quello è stato il momento chiave. Cruciale.
La cosa che traspare di più nel film è l’umanità, l’autenticità dei personaggi. Che cosa secondo te li accomuna? Il desiderio di giustizia? La consapevolezza che nella vita bisogna correre dei rischi per avanzare?
Credo che sia un sentimento di cambiamento, un’istanza di riforma radicale della società e della giustizia che c’è in entrambi e che è sintetizzata nella scritta che si legge nei manifesti alla fine del film: “Quando la giustizia e il diritto entrano in conflitto, sarà sempre la giustizia a prevalere sul diritto”. Quella è l’unica scena di finzione del film, io l’ho scritta cercando di raccontare qualcosa che altrimenti sarebbe stato difficile raccontare del personaggio di Felice. Quella è una scritta che appartiene a mio padre, una frase presa da un tribunale di Managua, che lui conserva in ufficio dietro la scrivania. La frase è sua, però paradossalmente è una frase che può appartenere anche a Felice, per il suo sapore così rivoluzionario, e a me aveva colpito come i due personaggi s’incontrassero in questa frase.
Questo è molto bello, perché i personaggi sono quasi agli antipodi, però in realtà, come dici nel finale, c’è una frontiera che deve rimanere aperta, in cui non ci si può schierare, perché altrimenti qualcosa va perso. La chiami una “necessità umana”. Non credi che in fondo Felice e tuo padre siano sempre stati, ognuno a suo modo, dalla stessa parte? Quella della giustizia umana, quella della vita? È questa la conferma che cercavi?
Sì, perché entrambi fanno fatica a rimanere all’interno di schieramenti e categorie che in modo semplificatorio li vorrebbero inquadrare in un certo modo, chiedendo loro “ma tu da che parte stai?” Che poi è un po’ quello che faccio io nel film, cercare di chiedere a tutti e due ma tu da che parte stai? Perché hai fatto questo? Perché non hai fatto quest’altro? Sono domande molto semplici, domande che potrebbe fare un bambino ad un padre, con quella stessa insistenza, però poi alla fine ti rendi conto che non è sempre così produttivo rispondere in maniera diretta ad una domanda del genere. A volte la risposta è molto più complessa e problematica. Quindi l’apertura della frontiera è anche rinunciare a voler trovare a tutti i costi una domanda netta a queste domande, ma accogliere questa problematicità.
Ti consideri un regista della realtà, non un regista di finzione?
Sì, anche se non è una scelta definitiva, io sono molto affezionato ad alcuni miei progetti di finzione, e vorrei cercare di ritornarci. Si tratta solo di capire come, perché una volta provata questa esperienza di realtà è difficile abituarsi agli attori, ad alcune dinamiche…