È ora nelle sale questo originalissimo esordio al lungometraggio. La timidezza delle chiome è un documentario, o docufilm, o un film verità se vogliamo, dove la regista Valentina Bertani segue da vicino l’adolescenza di Joshua e Benji Israel, fratelli gemelli pieni di vitalità e sogni per il loro futuro. La disabilità intellettiva li limita, ma i loro genitori, protettivi e amorevoli ma sempre fermi ed equilibrati, lasciano loro tutto lo spazio per fare le esperienze dei vent’anni. Entra allora in campo l’osservazione discreta e appassionata di questa giovane regista con la quale abbiamo parlato proprio durante il lancio del film.
Valentina, tu provieni dai videoclip, hai esperienza di spot anche fashion, e i tuoi protagonisti, Joshua e Benji hanno un viso particolarissimo. Sembrano quasi modelli. Ma vivono un disagio che racconti molto intimamente nel tuo film. Come si sono incrociate le vostre strade?
È successo per caso, in un giorno di sole a Milano. Mentre parcheggiavo il motorino ho notato due gemelli omozigoti così ricci e particolari che mi riportavano al cinema indipendente che tanto amo di Larry Clark e Harmony Korine. Ho deciso di fermarli per sapere se erano maggiorenni, se volevano fare qualche videoclip o fashion film insieme a me, ma non mi rispondevano e continuavano a camminare. Ho capito immediatamente che avevano una disabilità intellettiva perché avevo già avuto esperienze professionali con persone simili. Mentre sparivano lungo i Navigli ho pensato che forse avevo lasciato scappare una bella storia. Sono riuscita a recuperare i loro contatti chiedendo ai negozianti. Per fortuna i loro genitori sono gli ex-proprietari di un locale nei paraggi, Le Scimmie, così sono riuscita ad avere il contatto della madre.
La timidezza delle chiome è frutto di un’osservazione/lavorazione/condivisione con la famiglia Israel molto lunga. Titolo peraltro azzeccatissimo. Che tipo di percorso avete fatto insieme?
È il risultato di una grande storia di affetto tra me, gli sceneggiatori, il direttore della fotografia, la costumista, la produttrice esecutiva e casting director che è mia moglie. Sono tutti stati coinvolti nel rapporto che abbiamo instaurato con Sergio, Monica e i ragazzi. Li abbiamo frequentati per cinque anni e siamo usciti con loro tutte le settimane. Il titolo viene da un momento del film in cui è spiegato il fenomeno botanico della timidezza delle chiome [che consiste nello sviluppo di una volta arborea in cui le chiome dei diversi alberi non si toccano]. Risulta spiazzante perché in quel momento ci si chiede cosa sia reale e cosa costruito. Per aumentare il dubbio ho inserito un effetto di post-produzione dove le foglie inquadrate si smaterializzano, i rami smettono di toccarsi creando una geometria e regalando una suggestione allo spettatore: quanto c’è di documentario e quanto c’è di finzione in questo film che sto guardando?
Girare un videoclip è sicuramente più lineare. Quanto le tue scelte stilistiche preordinate sono state rivoluzionate sul set dai ragazzi?
Qui ho stravolto completamente il mio modo di raccontare. A livello estetico ho sempre dato priorità al crafting, al camera work, invece in questo caso ho lasciato guidare la storia. A livello umano Benjamin e Joshua mi hanno insegnato delle cose e anch’io a loro. Innanzitutto ho insegnato loro un lavoro, perché adesso sono in grado di recitare, di stare in campo senza guardare in macchina da presa. Abbiamo sempre fatto questo lavoro giocando con un nostro codice. Per esempio ho insegnato loro che l’obiettivo era come Medusa: non potevano guardarlo altrimenti si sarebbero pietrificati. Quello che hanno insegnato loro a me è che quando giri un film così character driven non puoi pensare che esista un dopo, un momento in cui il film finisce. Perché i personaggi possono anche finire di essere raccontati ma le persone non si possono abbandonare.
In fin dei conti il tuo film parla dell’unione di una famiglia e dell’amore fraterno. Quali sono i temi a te più cari?
Le storie che amo al cinema e quelle che voglio raccontare sono i coming of age. L’adolescenza mi affascina perché è un periodo effimero di passaggio, così come l’infanzia. L’altro argomento che mi sta a cuore è legato alla ricerca della propria identità, quindi anche tutto il cinema con tematiche queer.
La timidezza è il tuo esordio al cinema. Che tipo di film ti prepari ad affrontare adesso?
Il nuovo film che girerò si chiama Le bambine. È un film di finzione, la storia di due sorelle che incontrano una terza bambina piena di così tante difficoltà che non desidera di diventare grande come tutti gli altri bambini, ma vuole esercitare il suo diritto a rimanere piccola. Sarà un film colorato, pop, molto saturo, ambientato negli anni novanta. Ho scritto la sceneggiatura con mia sorella Nicole, Maria Sole Limodio e la supervisione di Barbara Alberti. Se tutto andrà bene lo gireremo nell’estate 2023. Siamo molto felici perché è una co-regia con mia sorella. Ho pensato di farlo con lei perché mi ha insegnato cosa significa davvero la sorellanza.
Da regista e sceneggiatrice, a quali cinematografie e a quali autori o autrici ti ispiri?
I miei registi di riferimento, come accennavo, sono Larry Clark per il suo raccontare senza filtro gli adolescenti, Harmony Korine perché conosce le regole e le stravolge cercando una grammatica tutta sua, e Todd Solondz perché ha un’ironia tagliente che trovo rivoluzionaria. Mentre le registe che mi stanno più a cuore sono Céline Sciamma, perché il suo cinema racconta storie con protagoniste femminili ben delineate e tridimensionali, ed è una continua riflessione sulla tematica dell’identità. E poi Julia Ducournau perché mi piace il body horror. Mi diverte la messa in scena del dolore al cinema. È come andare sulle montagne russe e confrontarsi con la paura del vuoto senza rischiare di cadere davvero. Il suo cinema assomiglia a un luna park: luci colorate, suoni forti e a volte un po’ di gioia mista a nausea.