Presentato alla scorsa edizione del festival di Venezia, Happy Winter è il primo lungometraggio del giovane documentarista siciliano, Giovanni Totaro viene dalla sezione palermitana del Centro Sperimentale di Cinematografia, quella dedicata al cinema documentario: dopo qualche esperienza nel formato corto e medio, approda alla lunga durata costruendo un film d’osservazione centrato sul microuniverso che si muove dentro e intorno alle cabine sulla spiaggia di Mondello.
Il movimento perpetuo di un venditore abusivo di bevande e snack è il metronomo che segna il ritmo, la linea d’entrata e d’uscita dalla dimensione intima e riparata delle cabine: davanti agli sportelli aperti, la sintesi e la riconfigurazione di una piazza di paese, con i tavoli, le carte, le radio, i teleschermi, le partire, le chiacchiere e perfino piccoli aspiranti politici in cerca di voti; dentro, tante piccole parodie d’abitazione, regge in miniatura ognuna ricostruita e agghindata secondo il gusto e i desideri del rispettivo occupante temporaneo.
Bastano pochi minuti di visione per scoprire l’anima divisa in due di Happy Winter: da una parte la pura e semplice fascinazione per l’atto del guardare, del raccogliere e conservare pezzi di tempo riscritti da un cinema puro e semplice in un racconto implicito ma diretto; dall’altra il film, prodotto dalla giovane società indipendente torinese Indyca insieme a RAI Cinema, sembra conoscere e consapevolmente frequentare l’efficienza standardizzata della narrazione paradocumentaristica di tanta televisione contemporanea, pronto per allettare un pubblico famelico ma distratto.
Totaro dimostra una sapienza non comune nel circoscrivere un luogo facendone proliferare immagini e immaginari, nello smontarlo in parti, nel penetrarne gradualmente gli anditi più nascosti, spiandolo dalle fessure tra le cose; sapienza nel cercare e trovare il suo gruppo di protagonisti, nel coglierne e annotarne con sagacia vezzi, tic, mostruosità e grazia, innescando nello spettatore la disposizione allo stupore.
Stupore che però non arriva mai perché Totaro, forse distratto dalla comprensibile preoccupazione di non sbagliare al primo colpo, predilige la battuta a effetto, il bozzetto impressionistico, un’osservazione frenata che si limiti ad alimentare una giostra narrativa semplice, fondata sul piacere elementare e confortante del riconoscimento; del rispecchiamento offerto allo spettatore invitato a riconoscere nel piccolo mondo del film la riduzione romanzata del piccolo mondo che pensa già di conoscere.
Così Happy Winter resta la promessa di un film che ancora non è, capace di scorgere le passioni, i desideri, le tensioni, le delusioni e frustrazioni dei suoi protagonisti senza mai farcene assaggiare neppure un grammo; lasciando che le persone servano da macchiette in un piccolo diorama balneare; fermando il gioco del racconto all’evocazione di un sentimento, senza prendersi mai il rischio d’inoltrarsi sull’impervia strada dell’emozione.