Incontro con Gianfranco Rosi, trionfatore a Berlino con il suo documentario Fuocoammare, dedicato alla tragedia dei migranti nelle acque di Lampedusa.
Non c’è solo una storia in questo film, ce ne sono varie…
Si tratta di tre storie parallele: c’è la storia di un salvataggio in mezzo al mare, quella dell’isola con i personaggi, fra cui Samuele, che sono poi diventati protagonisti del film e c’è la storia del centro. Sono come tre dimensioni separate che lo sono anche nella realtà.
C’era già qualcosa di scritto, di preparato nella sceneggiatura?
È tutto molto vero. Io dico sempre che è un film che si è come autofecondato, si è fatto da solo. La scrittura era attraverso la cinepresa, attraverso le improvvisazioni. Ho sempre voluto usare una dimensione cinematografica anche di racconto, però tutto quello che avveniva davanti alla macchina era assolutamente spontaneo e reale. Come la difficoltà che un bambino (Samuele) ha nel confrontarsi con la crescita, con l’adolescenza, con il mare, con il confine. Lui soffre persino il mare (come me del resto…). Poi, piano piano, accadevano dei fatti che sono diventati delle piccole metafore per il film: l’occhio pigro, l’ansia, l’invenzione del nemico con i fichi d’india. Samuele è diventato così anche uno stato d’animo del film.
Quanto è stato difficile scegliere di riprendere la morte di così tante persone?
Estremamente difficile: è stato un punto di arrivo del film. Quando sono arrivato sull’isola c’era l’assenza della tragedia, ma se ne udiva ancora l’eco, perché era appena accaduto il dramma del 3 ottobre in cui erano annegate più di 300 persone. Poi, quando ho iniziato il viaggio sulla nave della Marina Militare Italiana Cigala Fulgosi, mi sono confrontato anche io con la morte. Lì la morte mi è arrivata addosso, non potevo girare lo sguardo da un’altra parte. Mi sono dovuto confrontare con una scelta immediata, filmo o non filmo, e la stessa cosa nel montaggio: cosa posso far vedere di tutto questo? È stata una scelta dura, ma penso inevitabile.
Quale il momento più forte che si è trovato a documentare?
Siamo usciti con l’idrobarca per avvicinarsi un barcone, e sembrava una delle tante operazioni di intercettazione che avevo già filmato: ma quando siamo arrivati ho visto dei corpi agonizzanti davanti a me, ho sentito il loro respiro affannoso, e decidere di filmare è stato molto difficile. È stata la realtà più forte che abbia documentato, quella che ti lascia un segno. Dopo quel momento ho deciso che il film doveva chiudersi e che dovevo iniziare a montare con quello che avevo, più o meno 80 ore di girato, non avevo più la forza di continuare a filmare.
Quanto tempo ha trascorso sulla nave della Marina?
Ho fatto due viaggi. Il primo, di 2-3 settimane, è servito a conoscere il comandante, l’equipaggio, la vita di bordo, ma senza incontri con i profughi sul mare: è stato una specie di test, credo, per vedere come mi sarei comportato su una nave con una cinepresa. Ma senza questa introduzione non sarei stato in grado di girare e fare scelte così ardue: da allora ho sentito davvero l’adesione di tutto l’equipaggio.
Ritiene che Fuocoammare si possa considerare un film politico?
Io penso che il film sia politico a prescindere: non ci sono dei messaggi politici, c’è semplicemente la testimonianza di una tragedia che spero porti consapevolezza. Però il dibattito in Europa è talmente forte, il tema pulsante – me ne sono reso conto a Berlino – che il film non può prescindere da un’interpretazione politica, anche se non era la mia intenzione iniziale.
Sicuramente testimonia un messaggio umano e civile: come dice il medico, un uomo che voglia definirsi tale non può rimanere indifferente alla tragedia di queste persone.
Spero che il film porti proprio a questo, a una consapevolezza da parte della politica a livello europeo a trovare delle soluzioni che certamente non possono consistere nell’innalzare barriere o fili spinati. Anche se la cosa che mi fa più paura è la chiusura nella mente delle persone.
Nei suoi film di solito non usa musica: qui invece ci sono molte canzoni della tradizione siciliana e poi una canzone poco conosciuta che dà il titolo al film, Fuocoammare.
Non sono mai riuscito a usare la musica nei miei film perché sarebbe come sottolineare,mettere una voce fuori campo. Invece qui la musica veniva da una storia vera, la storia di Pippo, un dj che mette le canzoni su richiesta alla radio di Lampedusa, protagonista involontario del documentario, ed è perciò diventata un’esigenza narrativa all’interno del film.