Quando sono lontana dal ring mi manca quella sensazione di perdere il fiato.
È dentro il quadrato di una palestra a Torre Annunziata (Napoli) che Irma Testa, nonostante i suo i diciott’anni, ha provato e già appreso quella sensazione irriproducibile nella vita. È già una campionessa di boxe. Il suo anziano maestro Lucio Zurlo è l’unica figura paterna della sua vita. Irma è la prima pugile italiana della storia a qualificarsi alle Olimpiadi. Ma quando torna in Italia senza una medaglia, le sue certezze crollano. Lontana dai riflettori, si ritrova di fronte a un bivio: continuare ad allenarsi oppure rinunciare dopo una caduta così brutale.
I due registi hanno aggirato il rischio di trattare la storia di questa ragazza (che nel viso ricorda fortemente Angela e Marianna Fontana, le protagoniste gemelle di Indivisibili) con la retorica del grande riscatto umano. Tentazione, invece, a cui sembrano non resistere i giornalisti che hanno trattato il suo caso. “Irma mette KO la camorra” titolano i giornali che sfoglia il suo allenatore. “Ma che c’azzecca semp’ ‘a camorra?”, si chiede.
E in effetti Butterfly è un film di dettagli, frammenti indelebili di un ambiente per una volta non ostile, la casa alla quale Irma sente il bisogno di tornare prima di qualsiasi gara (“Io non mi concentro se non torno un po’ giù”): le canzoni stonate fuori dalla palestra, le rate dello scooter, la palestra da ristrutturare, le pescherie e gli scazzi col fratello più piccolo, il progetto di andare ad Ushuaia, “la fine del mondo”. Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman si dividono i rispettivi compiti in unità di lavoro per avere materiale in più su cui operare al montaggio (firmato dallo stesso Cassigoli con Giogiò Franchini). Mentre uno di loro è a Rio e testimonia l’attesa dell’incontro decisivo di Irma con la pugile francese (tra le spiagge affollate e l’antidoping), l’altro resta a Torre Annunziata, lavorando sulle reazioni della gente che non stacca gli occhi dai maxischermi. E il risultato è agile ed economico.
La semplicità del racconto non impedisce a i due registi-reporter di suggerire percorsi più profondi all’interno del film, come la riflessione sull’incontro/scontro con la realtà dei media. La boxe, del resto, per Irma è solo la partenza, un riscaldamento in preparazione. Il vero match che questo sport ha innescato è quello fra lei e la sua immagine in tv, fra lei e gli stereotipi del racconto di cui la si vuole protagonista, fra lei e i solitari cameramen. Cassigoli e Kauffman li filmano nel quadro del ring, uno con la camera a spalla, l’altra (Irma) coi guantoni, in agguato entrambi, ma senza colpo ferire. E quando gli operatori della tv non ci sono più (perché perdere alle Olimpiadi stacca di colpo la luce e le glorie), Irma cerca qualcuno che si occupi di lei dentro il telefonino, tra i commenti di Facebook che di tutto parlano men che di pugilato.
Butterfly è il documentario del presente. Si presta alla visione in sala così come a quella televisiva o quella sul web: non vi mancano quelle potenzialità di sintesi, ritmo ed emotività tipiche dei reportage televisivi ben confezionati. Da questo punto di vista, a parlare è la formazione dei due registi. Se Cassigoli ha firmato documentari per il canale franco-tedesco Arte, Kauffman ha realizzato reportage in più di trenta paesi, tra cui Gaza e Sudan. Per entrambi è la prima produzione italiana. E ci arrivano partendo da una storia di rivincita e caduta, trattandola senza un filo di retorica, eludendo la metafora della boxe e non vergognandosi anche ad insistere su quei passaggi di sano cazzeggio (compresa la noia) lontani dal ring.
Ponendosi con la distanza di un ospite non estraneo (né con eccessiva distanza né con quel gusto del pedinamento tachicardico da cinéma verité), i registi entrano con dolcezza nella vita di una ragazza di Torre Annunziata. E permettono ai loro magnetici non attori di far emergere la vita con spontaneità e copiosità, magnificando quel processo di scrittura inconsapevole della vita che nasce con e dentro Napoli. “Scrittura” ribollente, piena di voci e suoni, cucine, discussioni, cazzotti, birre in riva al mare: il tutto filmato con una distanza umanista che non fa fare mai al film colpi bruschi né digressioni inconsistenti. Materiale prezioso e problematico su cui poi dover operare una scelta di ellissi.
“Amiamo la realtà. Nel caso di Butterfly vedevamo dove la realtà ci orientava. E poi scrivevamo, sì. Ma scrivevamo non per decidere, ma per escludere”, hanno dichiarato i due registi. E tra le cose che certamente non hanno potuto escludere c’è il primo piano di una bambina che non parla e guarda fuori campo. È la prima inquadratura del film. Chi è e cosa stia guardando, il film lo rivela solo alla fine. Ed è la sorpresa sommessa con cui la storia si apre alla possibilità che il racconto vada avanti. Non solo perché Irma alla fine ha cominciato ad allenarsi per Tokyo 2020, ma perché il sogno è materia contagiosa. E quando in coda passa il brano Lullaby di Armaud, ti viene la voglia di farti un profondo respiro. Come fa Irma, per ricominciare, davanti al mare di Torre Annunziata.