Aperti al pubblico, esordio al cinema di Silvia Bellotti, è un documentario d’osservazione classico che ritrae con leggerezza cristallina il confronto quotidiano tra i cittadini e il più temibile dei volti dello Stato.
Vincitore del premio per il Miglior Documentario all’ultima edizione di Visioni Italiane ‒ festival organizzato presso la Cineteca di Bologna e dedicato agli esordi nei formati brevi, cortometraggi e mediometraggi, e al documentario ‒, Aperti al pubblico è l’esordio di Silvia Bellotti. Frutto di una lunga ricerca sul campo, il film è prima di tutto il risultato maturo di un percorso di apprendistato al cinema documentario. Silvia Bellotti si avvicina per la prima volta all’audiovisivo da giornalista, dopo aver ottenuto una laurea in Architettura, e dopo gli studi presso la Fondazione Lelio Basso a Roma. A Palermo iniziano le prime inchieste e i primi esperimenti con il video. Arrivano le prime conferme, i riconoscimenti, le opportunità̀ (tra le altre, una collaborazione con «Il Fatto Quotidiano»), ma contemporaneamente si chiarisce un nuovo limite: il racconto giornalistico non può fare a meno della notizia, del dato utile, della sintesi stringente.
Silvia Bellotti si sposta allora a Napoli, dove si iscrive all’Atelier di Cinema del Reale Filmap diretto da Leonardo Di Costanzo, tra i padri del documentario italiano contemporaneo, già docente dei rinomati corsi di cinema documentario degli Atelier Varan, a Parigi. Ancora durante i mesi del corso, Silvia gira Il foglio, suo primo corto documentario, centrato sulla varia umanità e sulle dinamiche di autogestione in risposta alla burocrazia, che si raccolgono davanti a uno degli uffici dell’Agenzia delle Entrate nella città partenopea: s’inaugura così la stessa linea di ricerca che anima e muove il successivo Aperti al pubblico. Alla fine del periodo di formazione, il progetto del lungometraggio ottiene il finanziamento dell’atelier ed entra in produzione (all’iniziale adesione di Parallelo 41 Produzioni si è poi aggiunta anche RAI Cinema).
Così nel 2015 Silvia Bellotti inizia a girare presso l’Istituto Autonomo Case Popolari di Napoli: gli impiegati che accolgono con entusiasmo la piccola troupe si aspettano, fraintendendo la situazione, una settimana di riprese “giornalistiche”; la regista invece inizia a girare “cinematograficamente” prevedendo sei mesi di lavoro. L’arco complessivo di permanenza di Silvia e dei suoi pochi collaboratori tecnici (Eduardo di Pietro, Giovanni Sorrentino come fonici e Claudia Brignone anche in funzione di aiuto regista) presso gli uffici dello I.A.C.P. sarà alla fine di quasi due anni. In questi lunghi mesi la documentarista registra molti incontri, volti e voci che negli uffici dell’ente pubblico mettono in scena il confronto diretto, talvolta drammatico, talvolta comico, più spesso tragicamente ridicolo con il più temibile dei volti dello Stato: la burocrazia. Utenti e impiegati però, non sono ritratti come contendenti che si battono su fronti avversi.
Nella serie di quadri che compongono il film ‒ e che gradualmente mutano coloritura emotiva e organizzazione simbolica ‒ è ricostruita una sola e unica lotta che quotidianamente si svolge con tempi e modi degni di un “mistero buffo”, quasi un rito scenico di resistenza e di sacrificio. Silvia Bellotti ‒ che dal videogiornalismo dice di aver appreso la dimensione simbiotica con la camera e la determinazione al racconto ‒ riprende l’ordinaria amministrazione, la routine mai scontata che ogni giorno ricomincia intorno alle scrivanie, nei corridoi, addirittura per le scale e dentro gli ascensori dell’istituto; non riprende sempre, non riprende tutto: qualche volta basta uno sguardo dell’impiegato a suggerire la delicatezza del momento, altre volte è sufficiente che la sua presenza negli uffici ‒ che dopo pochi giorni inizia a non essere più notata ‒ si faccia sentire come inopportuna, che la filmmaker senta il disagio del suo sguardo e scelga l’astensione.
Nell’inverno del 2016, con le riprese ancora in corso, Bellotti inizia a lavorare al montaggio insieme a Lea Dicursi e Claudia Brignone: comincia la scrematura delle molte ore di girato, la cernita delle storie interne, la definizione di un disegno ritmico, emotivo, drammaturgico. La linea guida però è essenziale: accumulare i momenti di più intensa esplicitazione del rapporto tra utenti e impiegati, momenti nei quali si esprime più forte l’emozione degli uni e degli altri ‒ le reciproche solidarietà e le piccole scaramucce, lo scontro formale e la sostanziale alleanza ‒ attraverso la proverbiale teatralità partenopea, la messa in scena del gioco delle parti, la rappresentazione delle dinamiche irrazionali, paradossali e grottesche che regolano il sorprendente, surreale, sempre precario equilibrio alla base del funzionamento dell’istituzione pubblica. Alcune delle storie, degli esperimenti, dei temi formali e delle soluzioni visive sono accantonati, tagliati via del tutto o ‒ più raramente ‒ conservati in brevi apparizioni puntuali.
Il film che esce da questa ulteriore ultima fase è un documentario d’osservazione classico che si giova della cancellazione della presenza della regista dalle immagini a favore di una scrittura leggera e cristallina: la materia è lo scambio tra le persone dentro un gioco sociale terribile e spassoso, antico e modernissimo, crudele e pietoso, che registra toni e gesti estroversi, eclatanti, scenografici, ma anche impercettibili vibrazioni, silenzi, pause, accenni, temperando i primi e amplificando i secondi in un’abile partitura audiovisiva che mescola dramma e commedia. Nella struttura complessiva che intesse giustapposizioni e intrecci di scene separate, si riconosce l’evoluzione dell’approccio alla ripresa che matura lungo il passare del tempo speso dalla regista negli uffici dell’ente pubblico: il punto di vista, la distanza rispetto ai soggetti ripresi, la prontezza nel cogliere, quasi anticipandoli, tic e microvariazioni nei volti e nei corpi si spostano tutti in direzione di una maggiore intelligente e laica intimità.
In questo piccolo diorama enciclopedico che tenta una illustrazione implicita della burocrazia nell’Italia del tempo presente ‒ esplorando un edificio intero, dai sotterranei nei quali sono raccolti a migliaia i fascicoli e i faldoni delle pratiche aperte, no alle più alte finestre che dominano la città, suggerendone finalmente una dimensione quasi simbolica ‒ si ritrova lo sguardo lucido e appassionato dell’architetto urbanista, l’acume e la sintesi perspicace della giornalista, l’attesa consapevole e la prontezza della documentarista che pensa e racconta registrando e riscrivendo il mondo attraverso il riflesso mediato dell’audiovisione.