Grandi spazi aperti e silenziosi o minuscoli oggetti dettagliati: sono le due estremità fra le quali si muove Quasi nessuno ha riso ad alta voce, disegnato su carta con chine e pennarelli acrilici e dove “i neri sono tutti analogici”.
Stefano, l’apatico protagonista del fumetto di Alessandro Pastore, in arte Pastoraccia, scopre di avere una sorella il giorno in cui i carabinieri bussano alla porta avvisandolo della sua morte. Da qui, come una fitta al petto nell’ennesima monotona giornata, si innesta la vicenda: un crescendo in cui, come ci ha rivelato l’autore, pittura, cinema, fotografia e letteratura si mescolano in un sapiente gioco di citazioni e rimandi.
Com’è nata l’idea della storia e in che modo sei arrivato a un fumetto lungo e compiuto?
L’idea della storia si è sviluppata in modo “lento” a partire da quattro disegni che avevo fatto su un quaderno di appunti: un corpo nudo di donna sdraiato in riva all’acqua, una palude, il volto di un uomo e uno scorcio urbano. Da subito il mio sguardo si è rivolto verso quel corpo per capire chi fosse e cosa ci facesse lì. Nello stesso periodo mi sono imbattuto nelle immagini dei pittori del gruppo del Novecento italiano e nella Nuova Oggettività tedesca, che hanno dato vita in me a un’atmosfera e una cifra emotiva attorno a cui volevo ragionare. Non ero ancora arrivato a pensare all’intero sviluppo della storia e ho iniziato a scrivere, non in forma sceneggiata, ma come se fosse un romanzo breve. Ci ho messo un anno abbondante per arrivare a una prima chiusura della storia scritta e a un inizio di fumetto disegnato. Il processo, fino alla fine, non è mai stato lineare ma costellato di prove e cambiamenti.
Mi ha colpito molto il contrasto apparente nelle tavole fra grandi silenzi sospesi e abbondanza di dettagli e piccoli oggetti – l’arredamento degli ambienti, le automobili o le architetture. Come si è svolto il processo di documentazione del libro anche a livello tecnico?
L’intera storia è disegnata su carta con chine e pennarelli acrilici. I neri sono tutti analogici. In una seconda fase ho aggiunto un effetto noise e i grigi digitalmente. L’effetto noise non è un semplice retino, per me ha un vero e proprio significato sul piano visivo: mi è servito per creare quella patina polverosa e vissuta, retrò, a cui volevo arrivare. Un po’ come in alcuni film o fotografie in bianco e nero che non sono perfettamente nitidi e si percepisce la grana della pellicola. La scelta di ampi spazi di sospensione è un rimando proprio a quell’atmosfera a cui mi riferivo sopra, che è una caratteristica tipica di alcuni romanzi dei primi del Novecento che fanno capo al genere del Realismo magico e si ricollegano alle fotografie di Luigi Ghirri o Guido Guidi, e allo sguardo narrativo di Gianni Celati. Gli oggetti piccoli sono arrivati a controbilanciare la dimensione spaziale aperta. Entrambi i poli, spazi aperti o dettagli, descrivono qualcosa che i personaggi non mostrano in modo trasparente. La documentazione è stata continua, sia per l’apparato visivo che per la parte narrativa. Passavo da documentazioni online, a video e film, pellicole, foto nei mercatini delle pulci, libri, cataloghi, conversazioni, corsi. Uno su tutti, un ciclo di lezioni sulla letteratura femminile a cura di Antonio Faeti del 2018 intitolato Il pigiama del moralista. Lì, tra le tante autrici, ho scoperto Grazia Deledda.
La storia è pregna di riferimenti visivi espliciti e anche distanti fra loro – cinema, pittura, fumetto, fotografia. Tutti però rendono bene il tono dell’intera vicenda. Come ti sei avvicinato a queste fonti e perché le hai scelte?
Nel 2016 visitai una mostra a Forlì intitolata Piero della Francesca. Indagine su un mito: il percorso espositivo prevedeva un parallelismo tra Piero della Francesca e la pittura italiana del movimento del Novecento. Tra i vari pittori esposti c’erano Antonio Donghi, de Chirico, Giorgio Morandi, Achille Funi, Felice Casorati e Mario Sironi. Da quel momento ho iniziato a ricercarli e ad approfondirli fino a scoprire Cagnaccio di San Pietro, una vera rivelazione. Luigi Ghirri l’ho scoperto durante gli studi accademici dieci anni fa, in particolare le sue collaborazioni con Gianni Celati, in cui sempre più mi sono ritrovato. Tutti questi nomi non sono solo un elenco, piuttosto una mappa: quando cercavo risposte ripartivo da dove ero arrivato. Un libro portava a un altro libro, un’immagine portava a un’altra immagine. Ad esempio, individuata l’ambientazione lagunare, a un certo punto cercavo un modo per inquadrare e mostrare il paesaggio. I documentari di Gianni Celati mi hanno condotto a un film: La Isla Minima di Alberto Rodríguez, che mi ha mostrato come esplorare uno spazio dall’alto in piani sequenza con inquadrature dall’alto, zenitali, con texture e movimenti inediti. Così il processo si è arricchito fino a creare una mappa cartografica con coordinate precise. Oltre a tutto questo apparato orientativo, a fianco sulla scrivania ho tenuto tre libri a fumetti che per me hanno fatto da “bibbie”: La notte dell’alligatore di Jacques De Loustal, L’attrazione di Lucas Harari e Micky Micky di Mezzo Pirus.
Quanto di questo approccio anche “geografico” alla storia che hai scritto deriva dalla tua provenienza e formazione bolognese o più in generale emiliana?
C’è molto del mio vissuto e del mio andare in giro per la regione. Fin da bambino sia io che mio fratello giocavamo a calcio. Mi ritrovai a girare prima nella provincia bolognese poi per tutta l’Emilia-Romagna. Ricordo bene ciò che vedevo dal finestrino dell’auto, principalmente erano paesaggi piatti, brulli e infiniti. Poi si transitava da paesi piccoli, alcuni “addormentati”, altri vivacissimi. E questo modo di guardare “fuori dal finestrino” crescendo è continuato, con i treni, a piedi… Poi ho iniziato ad aggiungere al transito anche le fermate e il guardare. Non ho mai avuto mezze vie nell’atto di osservare spazi e oggetti: o ero distante così da avere una visione d’insieme, oppure mi avvicinavo tantissimo fino a vedere dei dettagli, delle texture.
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