Gian Alfonso Pacinotti, per tutti Gipi, in vent’anni di carriera da fumettista non si è risparmiato proficue divagazioni, come il film L’ultimo terrestre, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2011. Ecco perché dopo il successo di Una storia, candidato al premio Strega, si è inventato un gioco di carte, Bruti, presentato a Lucca Comics & Games 2015. La nostra chiacchierata non poteva che cominciare da qui.
Bruti: com’è nata la voglia di cimentarsi con un gioco di carte?
La passione per i giochi da tavolo l’ho sempre avuta. Tre anni fa, per divertirmi, ho inventato un sistemino per far combattere due giocatori uno contro l’altro, una specie di arma bianca medievale. Quando ho iniziato a disegnare le illustrazioni e la grafica delle carte abbiamo provato (con La Bande Dessinée) a produrlo tramite crowdfunding, che è andato oltre le nostre migliori aspettative. Abbiamo stampato quasi 5.000 copie, andate esaurite in tre mesi.
Ogni gioco necessita un conflitto. Guardando Bruti riemerge un tema che già attraversa la tua produzione, quello della guerra.
C’è la passione per il combattimento, perché sono uno che si è fermato ai tredici anni. I disegni sono stati la parte più difficile, perché il fantasy è un genere estremamente codificato da decenni di cultura popolare. All’inizio pensavo che il mio stile non fosse adatto, poi ho accettato l’idea che i guerrieri fossero mezze seghe, storte e deficitarie come tutti i miei personaggi. E alla fine si sono creati da soli un’identità, un mondo fantasy più vicino a Brancaleone – che forse è il miglior fantasy di sempre – che a Conan.
Un gioco è un’opera aperta alla creatività del pubblico…
Mentre lo facevo avevo la speranza che i giocatori alla fine del combattimento potessero raccontarsi una storia da esso generato. L’invenzione dei nomi, le mosse, la possibilità di ribaltamenti continui delle situazioni, tutto era improntato al fatto che la partita stimolasse la fantasia dei giocatori. E quando ho cominciato a leggere sul web i racconti delle partite sono stato molto contento.
Bruti ti ha permesso di raggiungere un pubblico diverso, interessato prettamente al gioco?
La cosa che mi ha fatto più piacere è stato sentirmi dire «io non ho idea di chi tu sia, ma il gioco è figo». Penso che i miei lettori siano una piccola minoranza dei giocatori. Si tratta di mondi completamente diversi. Alcuni dei lettori l’hanno presa come una perdita di tempo, mi era successo lo stesso col cinema. Che poi è vero che perdi tempo, ma impari anche cose nuove, e io non riesco a focalizzarmi su una cosa sola.
Da dove si parte per inventare un gioco di carte? Dall’obiettivo finale o da quello che vuoi succeda nel frattempo?
Volevo riprodurre una sensazione. Non si direbbe, ma per tanti anni ho fatto full contact, e la passione per le botte mi è rimasta. Volevo simulare tutto, dalla fatica alla paura di fronte all’avversario. Per prima cosa mi sono messo in una stanza con un bastone a menare colpi a destra e sinistra e a cercare di capire cosa succedeva al mio corpo. Questa cosa l’ho tradotta in carte, in mosse. Poi volevo che fosse facile, che i non giocatori potessero capirlo e divertirsi. Pensavo a tramutare un’emozione in un formato meccanico e matematico.
Se ci pensi alla fine dare forma alle emozioni, inserirle in uno schema, è un lavoro che ben conosci.
Esatto, è come raccontare una storia. La cosa bella dei giochi è che tu ti togli di mezzo, non ci sei più. Passi tutto in mano a qualcun altro che è libero di interpretare, creare, cambiare. È esattamente ciò di cui avevo bisogno. Dopo tanti libri in cui c’ero sempre io, in un modo o nell’altro, l’idea di non esserci per niente mi faceva stare bene.
Anche questo lavoro, come i tuoi libri, è fatto tutto da te. Come nascono i tuoi lavori? È un “buona la prima”, per usare un termine cinematografico?
Dipende dalle esigenze della storia. Ho lavorato su almeno tre libri in improvvisazione completa (La mia vita disegnata male, S., Una storia). Succede quando sai cosa vuoi dire con certezza assoluta, devi solo fermarti e riflettere: qual è il motivo reale per cui starai un anno e mezzo a un tavolino? Ti butti in un baratro, a pesce, solo se ti rendi conto che hai qualcosa che ti preme davvero raccontare, una domanda. Io non so rispondere alle domande senza mettermi a raccontare una storia, se mi metto su un divano a pensare a qual è la risposta non la trovo mai. Allora ti affidi, se ti senti abbastanza sicuro, a quel desiderio di trovare una risposta a quella domanda. E puoi improvvisare, perché se c’è un punto solo a cui arrivare la strada che prendi non è così importante. Ora sto lavorando su una storia che invece è il contrario, di finzione totale, per cui ho scritto un testo che se lo vedi è la sceneggiatura di un film. Questa storia l’ho scritta come se dovessi girarla. Siccome è una storia di trama, e la cosa mi spaventa perché non ci sono abituato, ho bisogno di sapere con precisione cosa succede. Poi c’è il disegno, ed è diverso dall’avere degli attori. Per quanto anche gli attori ti sorprendano, il disegno ha una componente magica, di mistero, più forte. Una volta scrissi una pagina intera di voce off, ma quando disegnai il personaggio questo cretino di carta fece una faccetta che mi fece spazzare via tutto il testo. Il disegno ti porta su vie impreviste. Per questo usavo uno stile in cui l’incoerenza era parte del lavoro.
Infatti una cosa che colpisce è vedere quanto siano forti i tratti del disegno dei personaggi e quanto etereo il tuo modo di sfumare e stendere il colore. L’effetto è fortissimo.
Per fare il paragone col cinema, a me manca la musica. Il cambio emozionale lo dai con i cambi di colore. All’inizio ero fissato sulla differenza di sostanza tra l’uomo e la natura che lo ospita, avevo una teoria, però ora me ne vergogno un po’. C’era un ordine.
La natura è disegnata bene e gli esseri umani sono disegnati male.
Esatto, allo stesso tempo però crescendo ti accorgi che quella stortura lì è sempre parte dello stesso ordine, solo in un’altra forma. Questa volta invece ho fatto una pazzia: del libro precedente, Una storia, hanno scritto cose come “poeta”, “pittura bellissima”, “acquerello commovente”, così ho levato la pittura e la voce narrante. È un fumetto di puro racconto, ci sono solo i personaggi e quello che dicono. In bianco e nero.
Quindi bisogna cambiare sempre, per non annoiarsi.
Quando ero più giovane e cattivo guardando autori che mi erano piaciuti pensavo “guarda com’era e com’è diventato”… Io sento sempre il rischio di suscitare una reazione simile. Non c’è nulla di peggio per me che vedere che sto ripetendo un meccanismo che magari è funzionato nel passato. Lo rifuggo sempre. Mi dà fastidio essere etichettato, scappo. Per quanto la fuga verso un’altra tecnica mi faccia paura, è il motore per non invecchiare precocemente. Mi devo sempre dare delle regole, tipo samurai, che non posso infrangere, perché so che arriverà il momento in cui vorrò farlo. Il lavoro vale più di te, devi rispettare quello che stai facendo. Truffaut diceva che devi rispettare i tuoi errori. Se qui c’è l’errore strategico della mancanza del colore, lo devo tenere, perché il libro sarà quell’errore lì.