Francesco Guarnaccia, a soli vent’anni, esordisce nel mondo del fumetto pubblicando a puntate sul web la storia From Here To Eternity. Il sito che la ospita è quello di Mammaiuto, uno dei collettivi più attivi e interessanti nel panorama italiano, di cui Guarnaccia è uno dei membri più giovani e promettenti. Classe 1994, l’autore pisano dimostra fin da subito una grande capacità narrativa, solide conoscenze dei linguaggi artistici – di cui infarcisce con abilità citazionistica le sue tavole – e un’attenzione nelle colorazioni, che fin da subito vengono notate dai lettori e dalla critica.
Inevitabile dunque che il suo lavoro abbia suscitato l’interesse di una casa editrice come Bao Publishing, con cui Francesco Guarnaccia ha da poco pubblicato Iperurania, corposo libro a fumetti che segna la sua raggiunta maturità. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’ultima edizione del festival romano Arf! che, anche in seguito alla vittoria del premio Bartoli lo scorso anno, gli ha dato la possibilità di esporre al Mattatoio di Testaccio una selezione di lavori accanto alla grande mostra dedicata ai trent’anni dalla scomparsa di Andrea Pazienza.
[questionIcon] Partiamo dalla fine. L’anno scorso hai vinto il premio Bartoli e quest’anno apri la mostra di Andrea Pazienza. Che effetto fa?
[answerIcon] Aprire la mostra di Pazienza mi fa sentire come il gruppo spalla in un concerto leggendario, è una cosa da tremarella alle ginocchia, mi sento veramente fortunato ad aver avuto questa possibilità. La mostra in sé mi rende molto fiero, è una sorta di punto sul complesso della mia produzione e ha avuto un’ottima curatela, perché ho partecipato alla selezione, ma poi tutta la comunicazione è stata seguita egregiamente da Arf! insieme a Fox Gallery. Mi ha sorpreso l’intuizione che hanno avuto nel trovare un fil rouge che lega i miei lavori e nell’evidenziarlo nel modo giusto in tutti gli aspetti: dalla scelta del titolo [Ce ne sono di cose strane in questo regno, ndr] alla tavola d’apertura, dalla locandina alle cornici gialle.
[questionIcon] Oggi collabori con una casa editrice ben strutturata, ma nel tuo percorso hai anche un’esperienza nel mondo dell’autoproduzione. Come è stato, anche come palestra, il rapporto con il lavoro di gruppo nei Mammaiuto?
[answerIcon] Per me l’autoproduzione è, ed è stata, fondamentale. Hai scelto la parola giusta, è una palestra meravigliosa, dove c’è la massima libertà espressiva e professionale; del resto, quando si pratica uno sport bisogna continuare ad allenarsi per dedicarsi al meglio a ciò che si fa. Quindi per me l’autoproduzione rimane sempre una via da tenere aperta, parallelamente a quella più commerciale. Il metodo che ho trovato per mantenerle entrambe è differenziare i lavori: ce ne sono alcuni che sono adatti a una diffusione più commerciale e altri più consoni alla via dell’autoproduzione. Avere il sostegno di gruppo è fondamentale in questo processo, perché offre un confronto con persone fidate, un supporto nell’editing e anche semplicemente un bel rapporto di amicizia nel quale ci si sprona e ci si incoraggia a vicenda a fare le cose che ci piacciono.
[questionIcon] In uno degli incontri di Arf! hai detto che Iperurania rappresenta per te il lavoro della maturità, sia ‒ credo ‒ per una questione di narrazione, sia a livello grafico, per esempio nelle splendide splash page che hai inserito all’interno. Come è stato produrre un lavoro così maturo?
[answerIcon] È stata una bella sfida con me stesso e anche un motivo di crescita. Avevo scritto il mio libro precedente, From Here To Eternity, via via in capitoli che uscivano mensilmente su Mammaiuto. In questo modo non mi sembrava di fare un libro: disegnavo dieci pagine ogni tanto e solo alla fine sono diventate un volume unitario. Questa è stata invece la prima volta che mi sono confrontato con un testo da realizzare in un colpo solo, e mi sono accorto di come il metodo stesso di produzione dia origine a storie e a stili differenti. In questo caso era necessario concepire un flusso narrativo molto meno discontinuo, ed è stata una bella sfida. Anche dal punto di vista tematico, di ciò che volevo raccontare, a un certo momento, preso forse da tanto entusiasmo, ho messo troppa carne al fuoco e ho dovuto fare molta attenzione a cucinarla: mi sono trovato a un punto in cui il lato emotivo della trama e i temi erano a posto, però c’era da far quadrare la narrazione. È stato piuttosto problematico, ma sono soddisfatto del risultato. La crescita è stata anche a livello tecnico.
È noto che lavorando a un libro ci si evolve tanto, infatti un consiglio che si dà spesso è saltare qua e là nel disegnare le tavole, proprio per non rendere evidente la differenza fra la prima e l’ultima pagina. Ho imparato anche tante cose su come non si fa un libro: la più significativa è che prima ho disegnato e poi colorato tutte le tavole. Un procedimento negativo innanzitutto a livello emotivo, perché quando ho finito di disegnare mi sembrava di aver concluso e invece c’era ancora tutta una parte enorme da fare. Ma soprattutto ha diminuito l’effetto della narrazione dal punto di vista coloristico, perché nel momento in cui disegnavo le tavole avrei dovuto risolverle anche nel colore, che invece è venuto dopo come un aiuto alla storia e un’aggiunta estetica. Per i prossimi libri vorrei usarlo in un modo molto più narrativo e, per farlo, le tavole vanno create in modo verticale, ognuna va lavorata dallo storyboard al disegno e al colore in un unico momento.
[questionIcon] Anche se le scelte cromatiche sono state sempre uno dei tuoi punti di forza e qui si ritrovano a pieno in una storia che ha ambientazioni così “extraterrestri”. Il tuo uso del colore dimostra una conoscenza precisa anche a livello storico-critico. Che studi hai fatto?
[answerIcon] La mia formazione è da autodidatta, però di grande ricerca. Per me è fondamentale non smettere mai di cercare influenze visive, narrative, artistiche di ogni tipo. Ho un bisogno vorace di stimoli, di qualunque forma di intrattenimento: fumetti, ovviamente, ma anche videogiochi e musica. Spesso questa ricerca mi influenza in modo indiretto: quando lavoro non penso a un riferimento preciso, ma cerco di assorbire i tanti spunti e di elaborarli tramite la mia personalità, per poi riprenderli e mescolarli in un tutto più ampio. Un processo che per ora ha funzionato e spero continui, perché è molto più interessante che mettersi a tavolino alla ricerca di influenze precise tentando di replicarle in modo consapevole, ma meccanico.