Sulla terra leggeri: diario d’amore

    Sulla terra leggeri
    Sara Serraiocco in "Sulla terra leggeri", opera prima di Sara Fgaier.

    Presentato in concorso a Locarno e ora al Medfilm Festival di Roma (11 novembre) Sulla terra leggeri, il film d’esordio di Sara Fgaier, è una storia composta un tassello alla volta. È il racconto dell’amnesia di un uomo (Gian, interpretato da Andrea Renzi) che attraverso un vecchio diario e l’aiuto della figlia (Sara Serraiocco), “ritrova” la moglie scomparsa e comprende l’unica verità utile a stabilirsi un’identità: che da soli non si è nulla, in due ci si riconosce.

    Fgaier ha due corti all’attivo (Gli anni, 2018, selezionato a Venezia nella sezione Orizzonti e vincitore del Nastro d’argento 2019 per la categoria Corti Doc; L’umile Italia, 2014) e alle spalle una carriera da montatrice e produttrice insieme a e per Pietro Marcello – ha lavorato con lui su La bocca del lupo e Bella e perduta e fondato con lui la casa di produzione Avventurosa. «Tutto è cominciato mentre lavoravo al mio ultimo cortometraggio, Gli anni [ambientato in Sardegna, ndr]. Mi sono imbattuta in alcune immagini del carnevale sardo [di cui si vede un estratto all’interno di Sulla terra leggerindr] e ho voluto approfondire la dimensione che vedevo spalancarsi davanti a me. Ho sempre lavorato con immagini di archivio, è una ricerca che integro nella mia pratica, così come il lavoro con materiali diversi. Poi queste prime impressioni si sono legate alla lettura di un libro di Julian Barnes, Livelli di vita».

    «Questo – continua Fgaier – mi ha portato al filo conduttore dell’opera: mettere insieme due cose che sarebbero canonicamente distanti, che siano immagini o persone ma anche stati di vita. Torniamo al carnevale con la sua compresenza di lutto e festeggiamento, di vita e di morte. È una ricerca molto interessante anche dal punto di vista del montaggio, perché queste giustapposizioni aprono una dimensione collettiva: non c’è più solo il racconto di un “io”, ma la prospettiva si ramifica nel “noi” della società. Nel film per me la contrapposizione più forte, in questo senso, è il rimanere in vita in presenza della morte, il ricercare la persona amata nel dolore, quando questa non c’è più. Sono esperienze che riconfigurano il tempo e lo spazio. Che ci riportano a istinti che potremmo aver sopito, dimenticato. L’idea alla base di tutto è: che cosa succede se l’amore della nostra vita ci dimentica? Non perdiamo noi una parte di ciò che siamo, l’altro una parte di ciò che è?».

    In questa ricerca si parte dall’incertezza: le immagini si allargano e i contorni si sfumano. Noi con Gian non sappiamo dove risieda la verità, non ci è dato sapere se la raggiungeremo. Anche perché, cercando, Gian si avvale di un suo diario: per quanto contenga la soluzione, all’inizio sembrano le parole di un altro, niente torna, non ci si ritrova. Il vero si confonde nel falso.

    «È in questo senso che, come dicevo, la storia nasce dall’accostamento di componenti distanti: la non-memoria di Gian, quindi le sue impressioni, e le parole contenute nel diario, che per quanto ipoteticamente veritiere vengono messe in discussione. Chi è Gian, dov’è Gian? Lui esiste all’incrocio tra queste due versioni del tempo, e dunque del mondo, nell’equilibrio e nelle relazioni. Che vuol dire anche tra la storia e la Storia, tra le mie immagini e quelle d’archivio. In particolare non volevo subordinare queste ultime alla trama, non volevo che fossero né illustrative né metaforiche, ma che avessero una propria esistenza ed economia. Per me voleva dire mettersi in discussione anche con la nostra epoca storica, presentando un modo di vivere, e ricordare, diverso. Quando una persona se ne va non muore un singolo, ma muore il mondo che si portava dietro. Amare una persona non è solo un sentimento, è una forma di interpretazione della realtà, è un’epoca tutta. Ecco, l’archivio per me rappresenta l’epoca che Gian sta cercando di ritrovare».

    Trovare il legame tra memoria e amore: questo, mi dice Fgaier, è la chiave di tutto. È un baratro, se pensiamo alle categorie che siamo soliti usare per validare la nostra esperienza nel mondo e tenerci a galla. E una volta rotto questo nesso, infatti, Gian rischia di affogare. Per trovare le immagini che ben rendessero questa dichiarazione, la regista ha cercato per circa tre anni. Altre invece erano vecchie conoscenze, impressioni durature che non hanno desistito. Una tecnica a collage per attrazioni, o psicogeografia, che si ritrova anche nelle parole pronunciate nel mistero dei ricordi perduti di Gian. «Le voci off provengono da testi miei, da testi che ho letto, testi che ho trovato. Avevo la sensazione di aver raccolto materiale per tanto tempo, quasi senza essermene resa conto. E si sono uniti tutti in un’unica figura. Come se mi fossi preparata per questo film più a lungo di quanto credessi».

    Sulla terra leggeriNella serendipità, una guida pratica si ritrova: è Walter Murch, regista e montatore di Touch of Evil, Apocalypse Now, Ghost, Il Padrino parte III e Il talento di Mr. Ripley per citarne alcuni. «Sono autodidatta», spiega Fgaier, «ho studiato storia del cinema all’università e ho iniziato subito a lavorare. Sapevo che mi interessava il cinema ma non sapevo bene in che ottica. Ho cominciato sul documentario e come montatrice, a posteriori sono contenta perché mi hanno dato l’opportunità di scoprire vari aspetti del mestiere, di provare la mano su varie cose e scoprire il mio stile. L’incontro con Walter è arrivato a 29 anni, nel momento perfetto. L’ho seguito per un anno e mezzo, ho lavorato a un suo film e poi, per Sulla terra leggeri, lui ha fatto da consulente, ci siamo confrontati molto. Gli sarò sempre grata. Lavorare con qualcuno che fa il tuo lavoro, vedere come fa il tuo lavoro… è importantissimo».

    Un parte importante nel percorso del film l’ha giocato il Torino Film Lab, attivo del 2008, che in più di 15 anni ha contribuito a realizzare più di 200 opere tra sceneggiature accompagnate durante la fase di sviluppo e opere con sceneggiatura già in stato avanzato, poi aiutate durante le fasi finali della produzione.

    «Accompagniamo i progetti per un anno, così da formare i professionisti anche per il futuro». Così Mercedes Fernandez, Managing Director TorinoFilmLab, che come il Torino Film Festival si situa sotto l’egida del Museo del Cinema del capoluogo piemontese. «Quello che facciamo non è solo affiancare tutor mirati a seconda delle esigenze del progetto, ma anche spingere i partecipanti di ogni gruppo, di solito dai 10 ai 20, a lavorare con i colleghi creando un ciclo di feedback virtuoso. Vogliamo creare una safe zone che permetta ai ragazzi di mettersi a nudo di fronte ai colleghi, di creare un confronto profondo e aperto. Non è facile quando si crea, non lo è nei confronti di potenziali “competitor” come altri registi o sceneggiatori».

    Per Sulla terra leggeri gli interventi sono stati di finalizzazione – era infatti inserito nel programma FeatureLab. E poi, dopo il TFL Meeting Event, il co-production market di Torino Film Lab che si tiene in concomitanza con il Torino Film Festival a novembre di ogni anno, il Lab ha anche assegnato un premio a Fgaier per gli ottimi risultati portati a casa. Spiega Fernandez: «Per quanto le success stories del Torino Film Lab siano tante, riuscire ad arrivare in fondo a un percorso con profitto non è mai banale. Siamo molto contenti e orgogliosi di questi risultati. È un ottimo segnale per noi ma anche per tutta l’industria».

    Bello che una storia di ponti, e transizioni, possa chiudersi sul futuro.

    La versione completa di questo articolo è sul nuovo numero di Fabrique du Cinéma. Abbonati qui per restare sempre aggiornato sulle novità del cinema italiano.