
L’eroe fascistoide di Guglielmo Poggi prende a calci la quarta parete del teatro Belli di Trastevere con la stessa violenza di chi, fomentato da Donald Trump, il 6 gennaio 2021 ha preso d’assalto Capitol Hill. Un punto di non ritorno della storia recente nonché il primo, indisturbato scacco matto ai nuovi equilibri delle democrazie occidentali. Pronto ad andare in guerra con anfibi e divisa mimetica, tronfio di protesi, mitra e muscoli posticci, il fascistoide sul palco non fa altro che sparare. Guarda il pubblico: mira, pausa, fuoco. In meno di un’ora fa secchi tutti, anche Lilli Gruber, Macron e Fedez. E senza omettere le sue valide argomentazioni. Parla moltissimo, infatti, quasi senza respirare, in un delirio d’onnipotenza restituito da un inquietante esercizio di scrittura e memoria attoriale. Inquietante perché, in effetti, ogni tanto ci si dimentica d’essere a teatro e viene voglia di andarsene.
Il fascista ideato da Umberto Marino e interpretato da Guglielmo Poggi ci sfotte, ride, balla, uccide e poi esulta, s’accascia e poi torna in vita, fa discorsi da spogliatoio in uno spogliatoio vuoto. Il suo è un cameratismo che non ha più bisogno di interlocutori, perché l’ascolto non è un’opzione. “Stiamo arrivando”, preannuncia il titolo dello spettacolo, ma il personaggio si prende gioco del suo stesso autore e gli ricorda a scena aperta che, in realtà, loro sono già arrivati. «Noi il pianeta ce lo mangiamo, ce lo fumiamo, ce lo scopiamo. E se a chi viene dopo non gli rimane niente, chi se ne frega. Ha fatto male ad arrivare dopo», questo è lo slogan urlato dal fascistoide, mentre penetra l’aria a colpi di bacino. Poggi lo fa con un macigno di costume addosso (realizzato da Elena Giordani), tra machete, pistole, fucili, protesi, pettorine e braccialetti luminosi che lo stringono come un insaccato pronto ad esplodere. Impossibile staccargli gli occhi di dosso, perché è vero: i fascisti urlano meglio di chiunque altro. E naturalmente urlano contro di noi, le «zecche» in platea – così ci appella per un’ora – mentre in prima fila ci raggiungono gli sputi e gli schizzi del suo sudore (anche questo è teatro).
In scena vediamo il prototipo di un videogioco che cita l’estetica da combattimento del deathmatch, in cui l’ultimo a rimanere in piedi è l’unico a sopravvivere. Stiamo arrivando omaggia gli iconici immaginari di Fortnite, Tekken o Mortal Kombat, mentre con una sinergia a tratti inspiegabile tra la performance, la giostra di luci ideata da Stefano Rampa e i comandi della regia, Francesco Andolfi pilota Guglielmo Poggi attraverso le tipiche voice over dei cosiddetti “pre-battle announcement”. Get ready for the next battle, countdown, fight. Ma soprattutto, senza sosta e per quasi un’ora, Poggi fluttua. Si muove come un avatar, molleggia in costante equilibrio sulle gambe e agisce secondo la fisica dell’idle animation, in una sorta di marcia sul posto che dilata la tensione nel presagio della prossima azione. Siamo in un videogioco che rievoca gli avatar degli anni Novanta e insieme la rappresentazione sanguigna delle frange sociali più violente della nostra epoca. È un personaggio fastidiosamente rozzo, macchiettistico, invadente, ingombrante, mentre a raffica parla di armi, sinistra europea, diritti civili, giornalismo, conflitto in Medio-Oriente, cultura, conquista dello spazio, immigrazione (e se è vero che tra le fila della commedia italiana e dell’Orchestraccia ha trovato la sua cifra, nei ruoli da psycho come questo o come quello di Angelo Izzo nella serie Circeo, Poggi riesce a trasformarsi e dare il meglio di sé).
Lo conosciamo bene, il protagonista di questo spettacolo, e lo detestiamo. È una figura incurante dello spazio altrui, che divora tutto ma resta pur sempre un NPC. Un non-playable character che porta avanti la storia, sì, ma senza alcun controllo su di essa. Un burattino che incarna l’obiettivo del gioco mentre possiede solo l’illusione di dettarne le regole. L’allegoria è perfetta e disturbante, perché finiamo per detestarci anche noi, quando ci strappa una risata con una battuta volgare, quando ci scopriamo a trovarlo attraente nelle sue pose plastiche, quando balla su Taylor Swift e inneggia al fascismo sulle note di Mad About You degli Hooverphonic, in un momento di squisitissimo pop. Non vogliamo dirlo, ma stiamo pensando che forse un po’ ha ragione. Che ci stiamo trastullando nel disprezzo dell’altro senza provare a cambiare le cose.
Marino e Poggi portano in scena un j’accuse al contrario, un manifesto del fascistoide in cui è il sinistroide a specchiarsi e fare harakiri. Il suo coprirsi di ridicolo è la parodia del nostro fallimento, del nostro compiaciuto dissenso di facciata, della nostra sterile opposizione. Non siamo altro che gli spettatori impotenti del suo show. L’emblema di tutti gli errori? Neanche a dirlo, il parquet (tra i passaggi più esilaranti della pièce). Perché certo che siamo ecologisti, e certo che manifestiamo per l’ambiente, ma come possiamo rinunciare al parquet, che tanto bene si sposa con le nostre librerie, con lo yoga fatto in casa, con il tofu, i calici di vino bio e lo status da intellettuali con cui salveremo il mondo a suon di talk? Non rinunceremo mai al parquet su cui spiccano i nostri, di manifesti. Quelli della rivoluzione minimalista in helvetica, brandizzata su borse di tela e quadretti da sfoggiare ovunque con la scritta: Sta rottura de cojoni dei fascisti. Be’, forse è troppo tardi. Game over.
In anteprima a Roma, in scena dal 14 al 16 marzo, da non perdere in vista di un prossimo tour.