La rete digitale dell’azienda di Stato sta vivendo un momento d’oro. Grazie alla ricchissima library Rai che rende disponibile on demand e alla sua offerta originale di serie e film, RaiPlay conta oggi 19 milioni di utenti registrati. Ne parliamo con Elena Capparelli, direttrice di RaiPlay dal 2019, che si è occupata da pioniera dello sviluppo digitale dell’azienda fin dai primi anni Duemila.
È un caso che il suo mandato coincida con il boom di RaiPlay?
Sicuramente lo spartiacque è stato il novembre 2019, con il lancio della nuova versione di RaiPlay per il quale è stato scelto un programma straordinario come Viva Raiplay di Fiorello. E in questo ultimo anno, a partire dal primo lockdown, il pubblico degli utenti (molto bilanciato fra uomini e donne) è cresciuto di quasi 5 milioni: ma il dato ancora più interessante è l’alta percentuale di retention, che sta a indicare quanto gli utenti usufruiscono dei nostri contenuti. Cioè, io posso registrarmi per vedere un contenuto una tantum, ma se torno spesso significa che trovo regolarmente contenuti che mi soddisfano. Ecco, una media di 4 milioni e mezzo di utenti ogni mese torna a veder i nostri contenuti. Questo significa che ci considerano una piattaforma dove possono trovare contenuti diversi che li soddisfano in momenti diversi.
Chi sono gli utenti di RaiPlay?
Le ricerche ci dicono che si tratta in gran parte di un pubblico giovane: per oltre il 48% gli utenti di RaiPlay hanno meno di 44 anni; in alcuni casi, oltre il 60% degli utenti ha meno di 24 anni, come nel caso dell’esclusiva assoluta di Nudes, il reboot della serie norvegese sul revenge porn pensata proprio per un pubblico di giovanissimi. O nel caso di Mental, teen drama premiato l’estate passata al Prix Italia basato sul format originale finlandese Sekasin, co-produzione Rai Fiction e Stand by me, che racconta con grande rispetto storie di giovani con fragilità psichica, grazie anche alla consulenza scientifica della Dott.ssa Paola De Rose dell’Unità di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Mental è inoltre l’esempio, a mio parere, dei valori che devono caratterizzare il servizio pubblico, che deve essere capace non solo di guardare agli ascolti ma anche di affrontare temi complessi e scomodi.
Qual è oggi il ruolo di RaiPlay nella galassia del servizio pubblico?
Direi che innanzitutto ha un ruolo complementare, perché ospita l’estensione digitale di tutti i contenuti che vanno in onda sulla Rai. Ma nel fare questo allarga anche il target, perché intercetta pubblici che si perderebbero con una visione lineare. Oggi i fattori che incidono sul successo di un contenuto presso un pubblico non sono solo la sua qualità ed efficacia, ma anche quanto tempo quel pubblico ha a disposizione, in che forma e attraverso quale device. Se, ad esempio, io posso fruire di un contenuto quando mi sposto in bicicletta e non lo trovo disponibile on demand con un podcast, cercherò un’altra piattaforma che mi dà qualcosa di analogo ma nella forma che mi serve. Ma ormai accade spesso anche gli utenti vadano direttamente su RaiPlay, com’è stato per Una pezza di Lundini, oggetto di un vero e proprio culto fra i giovani che l’hanno visto subito sulla piattaforma, spesso nemmeno sapevano che andava in onda su Rai2. Inoltre RaiPlay ha avuto e ha un ruolo importante anche nell’alfabetizzazione digitale delle fasce di pubblico dei meno giovani: i lunghi periodi trascorsi in casa durante l’emergenza sanitaria hanno spinto anche i gli anziani a installare RaiPlay, magari con l’aiuto di figli e nipoti, accelerando una digitalizzazione collettiva che probabilmente avrebbe richiesto più tempo. Del resto da noi gli “over” possono trovare sceneggiati storici come La piovra o fiction come Un medico in famiglia, che, con l’ultima stagione andata in onda nel 2016, resta fra i titoli più visti ogni giorno. Nella linea di una continuità rinnovata nelle forme, a breve vedremo anche la nuova serie di Superquark più di Piero Angela, in cui si parlerà d’amore: puntate brevi di 15 minuti circa in cui Angela, volto notissimo della TV generalista, affiancato da giovani ricercatori, è “trasportato” in un formato diverso da quello in cui siamo sempre stati abituati a vederlo.
Vorrei approfondire con lei il discorso sui giovani: dal vostro osservatorio, cosa vogliono vedere e cosa no?
Direi che il bisogno degli utenti più giovani è molteplice. C’è indubbiamente un bisogno di intrattenimento, che è letteralmente esploso quando sono arrivati i grossi player internazionali con la loro immensa offerta di serie. I ragazzi hanno una conoscenza incredibile di tutto il mondo della serialità mondiale, sono abituati al binge watching, fanno passaparola sui social sui titoli che amano di più. E noi abbiamo infatti acquistato tante produzioni straniere, per lo più di stampo europeo (HBO Europe, BBC) come Stalk, Beforeigners, Pure, Foodie Love, scegliendo temi che riguardassero i ragazzi e i giovani adulti, e che infatti da loro sono state largamente apprezzate. Ad esempio ai 25-35enni è piaciuto molto Pure: la protagonista è una ragazza che soffre di un disturbo ossessivo compulsivo, raccontato in maniera molto ironica ma sempre con solide basi medico-scientifiche. Invece la norvegese Beforegneirs, un mix di fantascienza e thriller, è una lettura metaforica dell’arrivo dei migranti nelle società occidentali (nella serie in realtà emergono nelle acque di Oslo dal passato). Ma i giovani hanno anche un grande bisogno che si parli di loro e di avere loro stessi la parola, per essere compresi nella loro forza ma anche nelle loro paure: un titolo a cui tengo molto, pensato per rappresentare questo tipo di esigenza, è Tu non sai chi sono io, una docuserie sulla Gen Z alle prese con la crescita che ora arriva alla seconda serie. Infine, c’è un’esigenza di contenuti formativi a cui abbiamo cercato di rispondere insieme a Rai Scuola, Rai Cultura e alle reti generaliste. Molti ragazzi durante la maturità, ad esempio, hanno potuto vedere trasmissioni, documentari e film messi a disposizione nell’apposita sezione learning, che è stato anche un modo di trasformare l’intrattenimento in edutainment.
Con quali competitor vi confrontate?
Ragioniamo in un’ottica di servizio pubblico e perciò siamo meno legati a una visione puramente commerciale, ma guardiamo con attenzione ai numeri che ci fornisce l’auditel online tutti i giorni. I nostri competitor sono i broadcaster che hanno piattaforme digitali e naturalmente gli OTT (Amazon, Neflix, Disney+ ecc). Ma io sono convinta che giochiamo una partita tutta nostra. Il 50% della platea digitale che guarda contenuti più lunghi di mezz’ora guarda RaiPlay, il che è un dato estremamente significativo: vuol dire che gli utenti ci scelgono per contenuti lunghi e complessi, non per un consumo mordi e fuggi. E questo perché abbiamo una ricchezza di offerta che nessuno ha, composta da tutti i canali della Rai, tutti i programmi e la nostra offerta originale. Parliamo di 4400 titoli fra fiction, documentari, teatro, musica e film. Abbiamo scoperto che i giovani guardano tantissimo cinema: noi abbiamo una library di 1200 film, fra cui molti classici (le antologiche di Eric Rohmer e François Truffaut tra tutti), ma gli utenti trovano anche i formati meno comuni, adatti magari ad audience più piccole e segmentate che in un palinsesto generalista si perderebbero, come ad esempio i cortometraggi.
Su quale tipo progetti state lavorando? Avete in cantiere collaborazioni come quella con 42° Parallelosu docuserie non fiction, sulla linea di Ossi di seppia?
Sì, il tema documentaristico è uno dei nostri interessi prioritari, abbiamo già individuato vari progetti in tal senso. Ossi di seppia rappresenta bene uno degli obiettivi più consoni al servizio pubblico, quello cioè di tenere viva la memoria storica del Paese: questa docuserie, con immagini delle Teche Rai e fotografie d’archivio, è stata infatti l’occasione per raccontare alle giovani generazioni alcuni dei casi mediatici più clamorosi degli ultimi trent’anni attraverso le parole di un narratore centrale nella vicenda. Il progetto è nato prima della pandemia, ma il Covid ci ha suggerito risonanze come quella con il metodo Di Bella. Nella puntata dedicata alla sedicente cura contro il cancro che poi si rivelò un fake, avevamo l’obiettivo di far capire che è necessario avere delle competenze specifiche per parlare di scienza: la battaglia sulla terapia Di Bella che si consumò alla fine degli anni Novanta, raccontata da una dei protagonisti, l’allora Ministro della salute Rosy Bindi, fu forse l’inizio del populismo mediatico per cui in TV le opinioni di personaggi noti spesso sono messe sullo stesso piano delle conoscenze scientifiche consolidate, una dinamica che abbiamo purtroppo visto ripetersi anche in tempi recenti.