Mario Martone è un artista infaticabile. Senza menzionare nel dettaglio tutte le incursioni a teatro e nell’opera lirica (che comunque, solo nell’ultimo anno e mezzo, hanno registrato delle vette ne Il filo di mezzogiorno, da Goliarda Sapienza, e nella trilogia di film-opera per la Rai, Traviata, Barbiere di Siviglia e Bohème), Martone si è messo al lavoro sul suo ultimo film immediatamente dopo le impegnative riprese di Qui rido io. Anzi, in realtà è successo durante: come ha raccontato in una intervista rilasciata a Film TV Ippolita di Majo, il lavoro su Nostalgia era cominciato nel lockdown del 2020, che di fatto spezzò in due le riprese del film su Eduardo Scarpetta, interrotto dopo gli interni a Roma e al quale mancavano due settimane di esterni da girare a Napoli.
Nostalgia è un romanzo postumo di Ermanno Rea, grande scrittore napoletano che ha fatto letteratura sublime attingendo alla sua esperienza di giornalista cominciata negli anni ’50 all’Unità di Napoli, all’angiporto Galleria (oggi piazzetta Matilde Serao), una redazione che all’epoca era una palestra eccezionale e si ammantò, successivamente, di alone leggendario. Dopo Mistero Napoletano, La dismissione, Napoli Ferrovia e Il sorriso di don Giovanni (per citarne alcuni), Rea non fece in tempo a vedere pubblicato Nostalgia, uscito nel 2017, un anno dopo la morte dell’autore.
Al centro del romanzo, l’amicizia virile di Felice Lasco e Oreste Spasiano, inseparabili, simbiotici nel bene e soprattutto nel male, cresciuti nel Rione Sanità, il più misterioso e mistico dei quartieri antichi di Napoli, un quartiere di catacombe, di cimiteri, di riti sacri e pagani, di fondaci e palazzi monumentali, scavato nel tufo della collina di Capodimonte e al quale Ermanno Rea ha sempre fatto riferimento ed è sempre tornato, come in alcuni bei momenti di cui si legge già in Napoli Ferrovia.
Martone cominciò subito i sopralluoghi alla Sanità, accompagnato dal direttore della fotografia Paolo Carnera, e nel settembre del 2021 le riprese ebbero inizio. Per quanto ci sia potuta essere programmazione, il Rione Sanità non è stato uno sfondo neutro ma, formicolante della sua varia e febbrile umanità, ha avuto una vita propria che Martone è stato geniale ad accogliere e integrare dentro al film. Stabilito il campo base in un parcheggio nelle viscere del rione, agili furgoncini con le macchine da presa, le attrezzature per la presa diretta, i costumi e i fabbisogni di scenografia correvano avanti e indietro per i vicoli, la maggior parte della troupe sfrecciava in motorino per raggiungere più in fretta le location, la complicità degli abitanti aiutava ad avere a disposizione punti di vista privilegiati da balconi, terrazzi, cortili e vasci (i bassi).
Se nel romanzo Rea si cala nei panni di un narratore interno che racconta le vicende di Felice e Oreste, nel film Martone inventa un raffinato concerto di sguardi: a volte noi siamo Felice Lasco, altre volte, pedinandolo con la macchina a mano oppure seguendolo dall’alto con teleobiettivi strettissimi che lo isolano dallo sfondo, lo stiamo evidentemente spiando, come lo sta spiando Oreste Spasiano, l’amico perduto che Felice vuole ritrovare dopo quarant’anni di assenza da Napoli e di lontananza dall’anziana madre.
Ma non può bastare un affettuoso viaggio nella memoria: non può bastare a Oreste, che si è sentito tradito dall’amico che ha ricostruito la propria vita in un’altra città, in un’altra nazione, in un altro continente, e non basta neanche alla madre di Felice, giunta a un grado di consunzione raccontato da Martone con una pietas magistrale, che consegna a una ideale antologia alcune scene di questo film.
La seconda, grande differenza rispetto all’opera di Rea è che il romanzo comincia dalla fine. Martone e di Majo, sfrondando la storia di ogni dettaglio cronachistico o giornalistico, hanno invece privilegiato uno svelamento progressivo della vicenda: Martone non vuole fare un film “sociale”, ma vuole raccontare un sentimento, una vicenda umana, e se Felice scende negli inferi, nel vero senso della parola, noi ci scenderemo con lui. E se si guarda Nostalgia da questa prospettiva, non si fa fatica a considerarlo un gemello, in chiave maschile, de L’amore molesto, dove la Delia di Anna Bonaiuto pure si trasforma in detective di un doloroso passato. E, a voler essere più naïf, il parallelismo non finisce qui: L’amore molesto è l’unico film di Martone a essere stato in concorso al Festival di Cannes, raggiunto proprio quest’anno da Nostalgia.
Infine, come sempre nei film di Martone, un accenno alla statura degli interpreti, fra nuove e antiche collaborazioni: Pierfrancesco Favino nei panni di Felice è monumentale, non solo per lo studio fatto sulla lingua, una commistione di napoletano, riacquisito poco a poco con l’avanzare del film, e l’arabo, la lingua del lavoro e dell’amore, ma per una caratterizzazione del personaggio che parte dal modo in cui cammina e arriva fino al modo in cui mangia e beve; l’orco Oreste Spasiano di Tommaso Ragno, chiuso nel suo fatiscente castello da cui domina il quartiere, nerboruto, animalesco nelle espressioni verbali e fisiche, una presenza così misteriosa e temibile che, arrivati alla fine del film, si potrebbe tentare una acrobazia interpretativa e immaginare che non esista, che sia un demone, uno dei tanti che infestano le grotte della Sanità; il padre Rega cucito addosso a Francesco Di Leva, che trasmette fedelmente al suo personaggio una missione che è propria della sua quotidianità, con il NEST di San Giovanni a Teduccio; sempre grandi, Aurora Quattrocchi nei panni della madre, Luciana Zazzera nel ruolo della commara e Nello Mascia, un po’ guantaio, un po’ angelo custode.