
Il cinema di Margherita Giusti, animatrice e regista nata a Roma nel 1991, è sensoriale e porta lo spettatore dentro le storie di chi resta ai margini della narrazione collettiva. Tra realismo e surrealismo magico, Giusti ricrea un mondo in cui si muovono personaggi dalle motivazioni complesse, un luogo in cui è possibile essere sia persone che belve, tagliare e farsi tagliare. Ma la cosa più affilata resta la precisione autoriale con la quale Giusti scava nelle storie e ne espone la materia pulsante con una grazia crudele che ammalia e rende impossibile distogliere lo sguardo.
Hai scelto la forma del documentario animato sia per il tuo esordio En Rang Par Deux (2020) che per il tuo lavoro successivo, The Meatseller, prodotto da Luca Guadagnino e vincitore di un premio al festival di Annecy. È la storia vera di Selinna Ajamikoko, una ragazza nigeriana che sogna di diventare una macellaia come sua madre e per questo si imbarca in un lungo viaggio verso l’Italia. Come hai conosciuto Selinna?
Grazie a Margherita D’Andrea, una cara amica che al tempo lavorava in una casa di accoglienza per donne e bambini a Roma. Io volevo raccontare storie di donne che si emancipano tramite il lavoro e la vicenda di Selinna, che faceva la macellaia, era perfetta. Quando l’ho conosciuta però ho capito che c’era di più. A fine intervista, Margherita le ha chiesto «che animale vorresti essere» e lei ha riposto «una mucca, perché è la mia esperienza nella vita». Da quella frase ho deciso di concentrare le forze solo sulla sua storia e per un anno io e Margherita siamo andate a trovarla a borgata Finocchio, dove Selinna, incinta, raccontava seduta sul suo divano. Alla fine avevamo ore e ore di interviste che pian piano abbiamo sbobinato fino a creare un soggetto che ci convincesse, da lì ho scritto la sceneggiatura e iniziato a lavorare agli storyboard, insieme a Emanuele Bonomi che mi aiutava a montarli.
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Kant diceva che nelle giurie inglesi non erano ammessi né macellai, né chirurghi, né medici per la loro insensibilità verso la morte. Ma nel tuo film ribalti questo immaginario: The Meatseller è una storia di emancipazione ma è anche la storia della carne, del corpo. Non c’è insensibilità, anzi, c’è quasi un’identificazione.
Già dalla prima intervista Selinna mostrava una specie di morbosità quando parlava della carne, era chiarissimo che per lei tagliare la carne era come una catarsi. Ma, pur venendo da una vita privilegiata rispetto alla sua, capivo bene quell’idea di fare male al corpo nostro o di altri, come donna, perché il corpo delle donne è stato sempre abusato direttamente o indirettamente, è una consapevolezza che ci portiamo fin dall’adolescenza. Non è un caso che i film splatter abbiano un pubblico maggiormente femminile. Ciò che mi interessava di più era proprio rappresentare la connessione tra chi macella e chi viene macellato.
Quella che mostri è la bestialità cannibale dell’umanità che tratta i corpi degli altri, delle donne, come pezzi di carne, oggetti di consumo, di tratta e di vendita, di sfruttamento e abuso. Cosa porti con te della storia di Selinna e cosa speri che resti agli spettatori?
Porto con me la volontà umana e femminile di essere indipendente. Selinna ha una forza interiore che possiamo comprendere solo in piccola parte. Ma era una bambina quando è partita e mi ha colpito quando ci ha raccontato che aveva detto alla madre che sarebbe andata a dormire da una sua amica. Mi ha colpito perché è la stessa bugia che avrei potuto dire io a mia madre da adolescente, se volevo andare a fare serata. So che sembra scontato, ma l’unica cosa che veramente ci differenzia è il posto dove nasciamo, nient’altro, ed è assurdo pensare che esistano Paesi dove avere dei diritti è un privilegio. Mi hanno criticato dicendo «dovresti parlare di una storia che ti appartiene»: ma questa storia mi appartiene come appartiene a tutti quelli che che la vedono. Spero che questo resti agli spettatori e alle spettatrici, l’idea di stare assistendo alla storia di una ragazzina che viene trattata come carne da macello, ma soprattutto che quella ragazzina potevamo essere noi.
Come è iniziata la tua collaborazione con Luca Guadagnino e Frenesy Film?
Conosco Luca da anni, ho lavorato con lui facendo alcuni storyboard per una pubblicità e gli avevo mandato il mio corto di diploma. Quando cercavo una produzione per The Meatseller gli mandai la sceneggiatura e mi chiamò subito chiedendomi di raccontargli il film a voce. Mi ha sempre lasciato molto libera, soprattutto dal punto di vista stilistico. È una persona estremamente intelligente, oltre a essere un grande autore: quando gli ho fatto vedere il primo animatic, con immagini molto schizzate e ferme, lui ha guardato tutto in silenzio e alla fine ha detto solo «sento che mancano sei minuti». Ho aggiunto il finale, perché ero d’accordo con lui, senza pensare al minutaggio, e alla fine erano veramente sei minuti.
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Quali tecniche digitali e tradizionali preferisci impiegare in questo momento o vorresti provare in futuro?
Per animare solitamente io uso Tvpaint, altre animatrici nel corto hanno usato Harmony e per colorare abbiamo impiegato Photoshop. Essendo il corto un ibrido tra carta e digitale molte cose le abbiamo realizzate su carta, come le trasformazioni e ciò che è più materico, la carne e gli sfondi. Tutto è studiato, in animazione non puoi fare nulla di improvvisato. Le trasformazioni più astratte le ho pensate e scritte in sceneggiatura e poi disegnate negli storyboard; con Elisabetta Bosco ci abbiamo lavorato ancora e le abbiamo ripassate in fase di layout, per definire meglio i punti chiave e passarle poi all’animazione: quindi sono state animate, stampate e ricolorate su carta. La scena della violenza, per esempio, l’ho eseguita da sola animando in digitale e ripassando poi tutto su carta. Volevo che rendesse la visione dell’incubo, con un’animazione molto sporca e imprecisa. Dopo il corto mi è rimasta la voglia di tornare a esplorare l’animazione tradizionale su carta, con i pastelli, le gouaches e la matita, ma allo stesso tempo mi piacerebbe imparare nuove tecniche digitali e soprattutto nuovi software: vedo dei film bellissimi e mi viene la voglia di sperimentare con tutto.
Sei stata assistente regista e storyboard artist per alcuni anni, cosa ti è piaciuto di questa esperienza e quali sono le criticità che hai affrontato?
Il set mi ha insegnato tantissimo: a lavorare in squadra, a capire le altre persone, a non prendere le cose sul personale, a essere diplomatica. Ma, soprattutto, se stai sul set impari che tutto si può fare, mai dire “no” senza averci provato prima. Ho lavorato sui set dai venti ai venticinque anni, li amavo odiavo allo stesso tempo. Era un ambiente brutale, tossico e sessista, faticavo quasi sedici ore al giorno e non vedevo più i miei amici, ma allo stesso tempo lì ho conosciuto persone meravigliose, avevo il cuore pieno e mi sentivo in famiglia.
Nel 2020 hai fondato il collettivo Muta animation con Elisabetta Bosco, Elisa Bonandin e Viola Mancini.
Abbiamo fondato Muta dopo il diploma al CSC: eravamo molto unite con Elisabetta e Viola perché avevamo appena finito En Rang Par Deux e con Elisa perché lavoravamo tutte nella stessa aula. Ci ha unito la voglia di fare un’animazione libera, di trovare uno spazio sicuro dove sperimentare. La chiave del nostro legame è che ognuna fa quello che vuole, ognuna ha qualcosa che sa fare meglio e nei vari lavori gestiamo la parte creativa con massima libertà e allo stesso tempo ci consigliamo e correggiamo a vicenda. Ci piacerebbe in futuro essere più strutturate, per ora siamo sparse in giro per l’Italia per cui stiamo aspettando di capire, non abbiamo fretta.
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Cosa pensi dello stato di salute dell’animazione in Italia? Credi che sia un settore più collaborativo o più competitivo?
Quando sono andata a Torino a fare animazione mi sono ritrovata immersa in un ambiente completamente diverso da quello a cui ero abituata. Un ambiente molto femminile, dove la competizione era sana e basata principalmente sulla tecnica. Ho scelto l’animazione perché è molto meritocratica e soprattutto è un processo talmente difficile e lungo che raramente chi non ha la passione continua. In più, è un mondo così vasto che tra colleghi registi c’è una tale differenza di stile che è impossibile non provare curiosità e stima per i reciproci lavori. Purtroppo in Italia siamo ancora indietro, molta gente non è abituata ai film animati, pensa che siano solo per i più giovani o che “fa tutto il computer”; c’è anche un problema produttivo, non c’è mercato in Italia per i film animati e non c’è distribuzione, ma mi sembra che le cose stiano cambiando, almeno dalla parte del pubblico. Basti pensare agli incassi de Il ragazzo e l’airone.
C’è qualche artista o studio con il quale speri di lavorare in futuro?
Negli anni ho cominciato a seguire il lavoro di illustratori come Brecht Evens, Taiyo Matsumoto, Nicolas Nemiri e mi sono innamorata della poetica di registe come Anca Damian e Regina Pessoa; poi ci sono studi meravigliosi come SacreBleu e Miyu in Francia, BAP in Portogallo. Ma c’è una cosa che mi piacerebbe fare in futuro: la pubblicità. Soprattutto moda, dove vedo pubblicità bellissime e molto sperimentali.
Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto da quando lavori in questo settore?
Uno dei migliori consigli che mi porto dietro dai tempi di En Rang Par Deux e che darei ad artisti alle prime armi è quello che ci ha dato la nostra tutor Eva Zurbriggen: «fidatevi sempre delle vostre intuizioni».