Nella prima puntata (Il rilancio del cinema passa anche dalla TV, 13 ottobre), avevamo analizzato, nel dettaglio, le disposizioni contenute nella cosiddetta legge cinema, voluta dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo Dario Franceschini. Un provvedimento che intende introdurre nel nostro Paese, a partire dal 2019, delle quote obbligatorie, nella programmazione televisiva e negli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo, più rigide e severe di quelle attualmente in vigore. In queste ultime settimane l’iter legislativo del decreto è proseguito con l’acquisizione dei pareri favorevoli sia del Consiglio di Stato (6 novembre), sia di quello delle competenti Commissioni Parlamentari (15 e 16 novembre). A seguito di questi pronunciamenti, il 22 novembre, il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame definitivo, tre decreti legislativi che, in attuazione della nuova legge sul cinema, riformano in modo organico il settore della produzione audiovisiva, introducendo nuove norme sul lavoro nel settore cinematografico e audiovisivo, sulla tutela del pubblico non adulto e sulla promozione delle opere italiane ed europee.
Dunque il tema rimane caldo, al centro dell’antica e ricorrente contrapposizione fra le ragioni “dello Stato” e quelle “del mercato”, tra interventisti e liberisti, che lascia intravedere ulteriori possibili sorprese nel processo di conversione del decreto, soprattutto nell’incertezza delle logiche, delle convenienze e delle alleanze politiche che caratterizzeranno il periodo pre-elettorale. Nell’attesa di eventuali nuovi sviluppi, noi proseguiamo nel monitoraggio di questo iter, attraverso una serie d’interviste a esperti dei vari settori coinvolti. Dopo l’intervista ad Alberto Simone, esponente degli autori dell’Anac, abbiamo chiesto il parere di Antonio Ferraro, produttore televisivo e cinematografico che ha ricoperto incarichi manageriali sia in RAI sia in Mediaset, occupandosi proprio di programmazione cinematografica.
Il nuovo decreto Franceschini ha visto una decisa reazione da parte dei broadcaster che lo giudicano eccessivo rispetto alle proprie strategie economiche e editoriali con impatti finanziari definiti allarmanti. Che cosa mi dici in proposito?
È facile scegliere come bersaglio l’odiata (da parte di molti autori, intellettuali passatisti e produttori senza visione di mercato) televisione, alla quale da sempre si chiede, alla fin fine, solo di finanziare senza discutere progetti che, a detta di chi li propone, saranno fondamentali nello sviluppo delle coscienze e – perché no? – dei sicuri successi. Ho usato volutamente il termine generico e impreciso “televisione” perché questo sembra essere lo spirito del decreto: non una virtuosa attenzione a che i nuovi soggetti che arrivano nel nostro mercato investano ragionevolmente sulla produzione italiana ma, semplicemente, una pezza per compensare i ritardi (ormai un anno e mezzo di fermo in attesa della nuova legge e dei decreti delegati) e le ombre (i piccoli e medi produttori lamentano un impianto che rischia di favorire solo poche, blindatissime, produzioni) della nuova legge sul cinema.
Hai lavorato sia in RAI sia in Mediaset come responsabile della programmazione dei prodotti cinematografici. Come valuti oggi le potenzialità televisive del prodotto cinema in generale e di quello italiano in particolare sulle reti generaliste, dove nel prime time sembra ormai, salvo rare eccezioni, un prodotto di ripiego?
La mia più intensa stagione televisiva, per molti aspetti densa di soddisfazioni e di successi conseguiti con grande fatica e dedizione, è stata sostanzialmente quella dell’epica – e allora reale – concorrenza tra RAI e Mediaset. Allora, giova ricordarlo, i film e (per merito del nostro lavoro a RAI2, quando per primi in Europa li usammo con grande successo in collocazioni importanti), i TV-movies e le serie (la nostra coraggiosa intuizione di proporre Beautiful nel prime time della domenica ha fatto scuola) erano un terreno fondamentale di scontro tra i due network principali. Parliamo però di anni luce fa (televisivamente parlando), quando in Italia non c’era neanche la pay, la fiction era un genere presente ma non così largo e le generaliste avevano una programmazione con modulazioni da pay-tv, per cui il film (se ben scelto e programmato) era un genere di buon successo. In seguito, da un lato, l’arrivo della pay, della pay per view e poi del web e, dall’altro lato, un cinema sempre più indirizzato alle fasce giovani o giovanissime (quelle più assenti davanti allo schermo generalista) hanno reso i film una tipologia di scarso appeal, soprattutto per l’audience, amplissima, indifferenziata e tendenzialmente adulta della prima serata.
Quindi da una parte i broadcaster, contrari al decreto, e dall’altra gli autori e i produttori, favorevoli, nonostante qualcuno sottolinei che gli stessi produttori, o almeno una parte, non sarebbero pronti alla sfida. Insomma quali saranno i reali benefici per l’industria dell’audiovisivo?
È ovvio che, nell’immediato, autori e produttori siano d’accordo con il decreto: sulla carta si apre loro qualche spazio in più e la definizione di spazi di prime time dedicati al prodotto nazionale fa intravedere anche la possibilità di ottenere più soldi per la cessione dei loro diritti. Però – a prescindere dalla sgradevole impressione dirigista che dà il decreto (il Governo e il Ministro che si fanno programmatori televisivi!) e dal concetto stesso di prima serata che ha un senso per le TV generaliste ma molto, molto meno per i nuovi soggetti – non è difficile prevedere che, così come ci sono da anni molti film che nascono solo perché rispettano i parametri burocratici e ideologici del finanziamento pubblico (l’insopportabile politically correct, nemico di ogni libertà creativa), si svilupperà un filone di film-similfiction adattissime alla collocazione sul piccolo schermo ma ulteriori macigni sull’accidentatissimo percorso del nostro cinema, già maciullato dalle pastoie politico-burocratiche alle quali è sottoposto.
Una regolamentazione più chiara e stringente può da sola innescare un processo virtuoso di rafforzamento del fragile comparto della produzione italiana o deve essere accompagnata da un salto di qualità dei modelli produttivi?
Non vale solo per il nostro Paese, ma è evidente che un’industria dell’audiovisivo può reggere solo se conquista una platea internazionale. Noi da anni abbiamo abdicato a questa funzione (fino a qualche decennio fa eravamo secondi solo agli Stati Uniti nelle esportazioni). Qualche segnale sta arrivando da alcune serie TV (Montalbano, Romanzo Criminale, Gomorra) e questo ci dovrebbe far capire che l’unico salto di qualità può venire dall’attenzione libera e senza pregiudizi al mercato e alle sue richieste. Serve, naturalmente, l’ausilio dello Stato per aiutare la necessaria “eccezione culturale” di un genere che ha bisogno di costanti innovazioni. Serve molto meno il dirigismo politico e lo strabordare delle istituzioni in ambiti non di loro competenza.
Il decreto s’ispira al modello francese e anticipa alcuni regolamenti in discussione EU, come quello di estendere le quote anche ai produttori tipo Netflix, Amazon ecc. Perché dunque queste polemiche se lo scenario europeo si muove nella stessa direzione?
Certamente, chiedere a queste nuove realtà (così come alla 7, che non dà segnali in questo senso) di investire nel prodotto nazionale ed europeo è certamente giusto ma la sensazione e che – almeno nell’immediato – i produttori si stiano preparando, preventivamente, a rivolgersi alle più abbordabili e note TV generaliste, con i rischi che abbiamo visto. Aggiungerei, sommessamente, che non è detto che l’Europa (spesso attraversata da pruderie intellettualistiche e autoriali) sia sempre nel giusto ma, comunque, se vogliamo pensare al modello francese, quanto dovremo aspettare perché si crei un CNC (Centre national du Cinema) italiano, che faccia gestire il cinema dagli addetti ai lavori – con severe norme di rotazione, perché non si amplifichino posizioni di privilegio – e sempre meno dalla politica?
Parliamo adesso di fiction televisiva, un mercato per ora nelle mani di pochi operatori, che negli ultimi anni ha visto significativi tagli di budget da parte dei principali broadcaster. La competizione RAI-Mediaset, finora unici veri produttori, non sembra aver favorito l’industria dell’audiovisivo, limitando la sperimentazione per paura dei flop e chiudendo il mercato a nuovi linguaggi e quindi a giovani autori e produttori. Come superare questa impasse?
La risposta è, direi, in quanto ho osservato prima: una produzione che abbia come punto di riferimento il mercato vero (non solo quello ripetitivo degli ascolti televisivi del giorno dopo) e che veda i nuovi media come una risorsa e non come un fastidio ha, inevitabilmente, bisogno di nuova linfa creativa e tecnica e deve necessariamente sperimentare per trovare nuove soluzioni. Anni fa, lo ricordo, avevamo scommesso su qualcosa che sembrava fuori dalla nostra portata: il cartoon italiano. Abbiamo, allora, vinto la scommessa ma, poi, scelte miopi e scarso coraggio industriale e creativo hanno di nuovo relegato in una nicchia i nostri prodotti. Si tratta, come sempre, di non sprecare o usare clientelarmente le risorse. Ce la possiamo fare?
*Antonio Ferraro – Manager e produttore televisivo e cinematografico, giornalista pubblicista, soggettista, sceneggiatore, autore. È stato membro del Consiglio Nazionale dello Spettacolo del Ministero del Turismo e dello Spettacolo e, fino al 2014, delle Commissioni Finanziamento Film. Inoltre è stato responsabile dei palinsesti e delle redazioni cinema e fiction di Mediaset e coordinatore dell’offerta cinematografica di Stream.