Michele Pennetta – giovane documentarista italiano di nascita, svizzero d’adozione – dice che per fare film oggi c’è bisogno di fortuna. Ancora di più forse ne serve per riuscire a mostrarli al pubblico in tempi tanto incerti: il suo secondo lungometraggio, Il mio corpo, selezionato ai Nastri d’argento nella sezione Cinema del reale uscirà il 26 febbraio sulle piattaforme Zalabb, #iorestoinSALA, CG Digital e dal 18 marzo su Chili.
Il mio corpo è il primo apice di una carriera già riconoscibile – e riconosciuta – ma ancora nel pieno del suo primo sviluppo. Il film debutta nel bel mezzo della prima grande vampata del contagio, al festival svizzero Visions du Réel, prosegue il suo percorso ricevendo un invito a Cannes, trasformatosi, dopo la cancellazione del festival, in un viatico alla distribuzione francese – il prestigioso ed efficacissimo label Acid; a Roma, ad Alice nella città, vince il Premio Raffaella Fioretta al miglior film italiano tra le opere prime e seconde.
Oltre le apparenze di “prodotto da festival”, Il mio corpo nasconde l’istinto di uno scaltro narratore arrivato al documentario quasi per caso. Da Varese dov’è nato, Michele Pennetta si sposta in Svizzera, a Lugano, dopo un breve e rapidamente interrotto passaggio all’Accademia di Brera; prima la scuola universitaria in comunicazione visiva (SUPSI) poi il fondamentale approdo al master congiunto di HEAD e ECAL. Qui l’incontro con il teorico, critico e regista J.L. Comolli e con Claudio Pazienza, documentarista italiano trapiantato in Belgio. Il film di diploma – Cani che abbaiano – già lo segnala in festival importanti (Nyon e Torino), ma la necessità di ottenere un visto lo costringe ai monotoni uffici del video aziendale. È a questo punto che Pennetta scopre il bisogno di fare cinema: legge un articolo di giornale, studia, ricerca e inventa una storia che propone a Jöelle Bertossa, la produttrice con la quale ancora oggi lavora. Il fondo ottenuto per lo sviluppo del piccolo documentario è all’origine del primo effettivo incontro con la Sicilia: nel suo primo viaggio sull’isola, Pennetta scopre che la storia che ha immaginato esiste davvero e che può diventare un film. A iucata, 2013, breve affresco sul mondo delle corse clandestine nelle periferie siciliane, è il film che sancisce di fatto l’ingresso nel cinema professionale ed è l’occasione cruciale dell’ingresso nell’universo siciliano che seguiterà a essere l’orizzonte e la materia dei suoi due film successivi.
Tre anni più tardi, nel 2016, arriva il primo lungometraggio, Pescatori di corpi: con lo stesso piccolo gruppo di collaboratori e lo stesso modus operandi, rapido e leggero impiegato per A iucata, il giovane filmmaker immagina di raccontare il fenomeno migratorio nel Mediterraneo dal punto di vista di un equipaggio di pescatori di frodo catanesi (conosciuti attraverso i protagonisti del corto precedente), apparentandoli allo sguardo parallelo di uno “straniero” che sopravvive di nascosto in un vascello ormeggiato al molo di fronte a quello dove i pescatori clandestini approdano ogni giorno. Il film gira il mondo, ma non soddisfa il regista che dalle difficoltà e dai fallimenti di questo progetto inizia a costruire le basi per il suo metodo futuro.
Viene infine l’idea di un film sulle miniere abbandonate nell’entroterra siciliano nella zona di Caltanissetta. Inizia un percorso di ricerche, sopralluoghi e di scrittura che dura un anno e mezzo e durante il quale il progetto del film cambia diverse volte. Intorno alle lande desolate in cui si sono trasformate le miniere in stato di abbandono e che nel tempo hanno finito per diventare discariche selvagge, Michele Pennetta scopre la figura del recuperante di ferro vecchio. L’incontro con Oscar, un bambino che lavora insieme al padre aggirandosi tra i rottami, è il punto di svolta: Il mio corpo inizia a esistere come storia “anatomica” del sottoproletariato nel nostro presente, come proliferazione e trasfigurazione audiovisiva sgorgata dal Rosso Malpelo di Giovanni Verga, come sviluppo cinematografico a schema libero di una storia senza racconto di due esistenze che anelano a un affrancamento oltre il perimetro compreso tra il fisiologico e l’emotivo. Poco distante da Oscar, Pennetta incontra infatti Stanley, giovane immigrato nigeriano che sbarca il lunario immerso in un’arresa irrequietezza che sembra condannarlo all’inerzia.
È quella del verismo letterario aspro, asciutto e concretissimo, la Sicilia che il regista conosce meglio e che riconosce nei corpi dei suoi pochi protagonisti e nei luoghi nei quali sembrano quasi radicati. Un continente di immagini e immaginari che facilmente sublima in un universale nazione dei reietti anche grazie a una fotografia antinaturalistica che sprofonda il film in un intimo e remoto oltremondo. Il mio corpo rinuncia alla struttura di una narrazione e trasferisce il racconto sul piano di una teoria di quadri che alternano l’oscurità alla luce, l’azione e il movimento alla stasi, il silenzio alla pura musicalità della voce (quella dei siciliani si esprime solo in dialetto, quella di Stanley quasi esclusivamente nella sua lingua madre); tra collezione di tranche de vie e rito tragico ordinato per stazioni, il film procede con cadenza laconica ed ellittica fino al momento in cui i percorsi dei due protagonisti si avvicinano e s’incontrano fisicamente, nel buio di una notte simbolica. L’esito finale è sancito dallo Stabat Mater di Pergolesi: un’austera composizione liturgica che sembra specchiarsi nel titolo allusivo riferito al sacrificio supremo del Salvatore.