Gabriele Mainetti e La città proibita: “Avrei voluto essere wagneriano”

    La città proibita
    Da oggi in sala il nuovo film di Gabriele Mainetti, "La città proibita", con Enrico Borello, Sabrina Ferilli e Yaxi Liu (ph: Andrea Pirrello).

    C’era una volta il cinema di genere e niente sarebbe stato più come prima. Arrivarono i poliziotteschi, lo spaghetti western, la commedia erotica e l’horror, tutti a loro modo rivoluzionari. E oggi? L’industria italiana del film è infinitamente cambiata, ma è indubbio che dal 2015, con il suo esordio alla regia con Lo chiamavano Jeeg Robot, il regista Gabriele Mainetti stia cercando di riportare in auge una delle epoche più floride del nostro cinema. Partendo dagli stilemi fumettistici d’oltreoceano, al racconto fantasy storico di Freaks Out, anche con grandi richiami sonori all’epopea del west, Mainetti ha costruito negli anni una forte cifra stilistica che non sarebbe potuta esistere senza la grande tradizione dei B-Movies all’italiana. Dissacranti, violenti, fortemente estetici e rappresentativi di un’epoca, sono nuovamente d’attualità proprio grazie al suo cinema, che oggi ritorna con una nuova e ambiziosa prova registica, La città proibita.

    Ambientato nella mutietnica Piazza Vittorio, che potrebbe essere allo stesso tempo la Chinatown di San Francisco di Grosso guaio a Chinatown di Carpenter, la narrazione segue il processo di redenzione e vendetta di Mei, arrivata a Roma per ritrovare sua sorella. Nel viaggio dell’eroina, troverà sulla sua strada Marcello, cuoco e figlio del proprietario del Ristorante da Alfredo, caposaldo della romanità contro “l’invasione” orientale del quartiere, mescolando l’ironia pulp con il realismo urbano. Il suo sguardo si sofferma sulle contraddizioni culturali, sui conflitti identitari e sulla trasformazione di Roma, una città che diventa scenario di scontri ma anche di inaspettate alleanze.

    Il cinema di Mainetti è coraggioso, dirompente, anche nella sua imperfezione.  Alle volte le sequenze action travalicano la trama, ma la resa è veramente di altissima fattura in una perfetta coreografia che unisce regia, musica e suono. Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo e discutere con lui di come il genere kung fu si possa congiungere con la commedia all’italiana e del ruolo focale della musica, così come del suono, nel saper costruire tensione e ritmo narrativo.

    Da dove nasce l’idea per La città proibita, considerando la varietà di stili presenti che si rifanno al genere principale del kung fu? Penso, ad esempio, a riferimenti che vanno da I tre dell’Operazione Drago fino a Grosso guaio a Chinatown di Carpenter, con il suo tono più comico. Mi interessa anche capire come avete lavorato sul suono e sulla musica, visto che le scene d’azione hanno una forte componente coreografica che non è solo registica, ma anche fortemente sonora.

    Quando realizzo un nuovo film parto sempre dall’idea di voler raccontare un genere che non ho ancora affrontato. Il kung fu movie era senz’altro qualcosa di nuovo per me e mi interessava esplorarlo. Come hai detto tu, Bruce Lee docet, e da lì è iniziato tutto. Però, per me, è fondamentale che una storia sia radicata in uno spazio che ci appartiene, altrimenti rischia di rifarsi soltanto ai modelli preesistenti. È proprio in questo incontro-scontro culturale che nascono spunti interessanti. Mi è sembrato naturale far confluire il racconto anche in una storia d’amore, un elemento che avevo in testa sin dall’inizio. Allo stesso modo ho voluto citare lo spaghetti western, in particolare Per un pugno di dollari. Mi divertiva l’idea di un personaggio che, come quello di Clint Eastwood, scombina gli equilibri tra due fazioni contrapposte come quella dei Baxter e i Rojo. Nel nostro caso, da un lato c’è Annibale, nella trattoria del suo miglior amico Alfredo, e dall’altro La Città Proibita, il ristorante di Mr. Wang che nasconde una bisca, prostituzione e traffici poco chiari. Il film nasce proprio da queste tensioni. A quel punto inizi a costruire i personaggi: chi è Annibale? Chi è Marcello? Per dare profondità alla storia, con gli sceneggiatori Stefano Bises e Davide Serino abbiamo fatto ricerca sul campo. Siamo andati nelle zone frequentate dalla comunità cinese e abbiamo parlato con la polizia, cercando di capire quali fossero gli spazi di criminalità e di prostituzione. In realtà ci hanno parlato molto bene della comunità cinese, descrivendola come una realtà riservata, rispettosa e molto attenta all’aspetto sociale. Ma ci hanno anche raccontato altre storie interessanti, come quella di un italiano che subaffittava un appartamento a decine di senegalesi a cifre spropositate. Quando la polizia interveniva, se la prendeva con il proprietario, mentre lui spariva nel nulla. Questo spunto ci è sembrato perfetto per caratterizzare il personaggio di Annibale e da lì il racconto ha preso forma. C’è una ragazza cinese che arriva a Roma alla ricerca della sorella scomparsa. Si trova a muoversi tra due realtà criminali che si detestano. Chi c’è dietro a questi traffici? Chi sono davvero queste persone? Il nostro intento era raccontarle nella loro tridimensionalità, senza giudicarle, ma rendendole comprensibili, empatiche, a volte persino divertenti. Non volevamo personaggi stereotipati o monodimensionali. Così, passo dopo passo, la storia ha trovato la sua strada.

    La città proibitaPer quanto riguarda la costruzione musicale e sonora del film, su quali aspetti avete lavorato? Tratti spesso generi molto specifici, ciascuno con un approccio musicale ben definito. Quanto è importante per te che l’aspetto musicale e sonoro rappresenti e valorizzi il genere del film?

    Abbiamo lavorato sulla musica seguendo due direzioni principali. Da un lato, c’è il needle dropping (uso di musica preesistente), con brani totalmente diegetici e partecipati. Penso alle canzoni di Mina e Patty Pravo, cantate dai personaggi di Lorena e Marcello, interpretati rispettivamente da Sabrina (Ferilli) ed Enrico (Borello). Dall’altro lato, c’è la musica sinfonica classica, costruita attorno ai temi principali del film. Questa parte ha il compito di sostenere il racconto senza invaderlo, cercando di integrare le tecniche più contemporanee. L’orchestra è stata infatti ibridata con elementi elettronici in modo sobrio, evitando di darle troppo spazio. Abbiamo lavorato con sincopati tipici di un approccio minimalista contemporaneo, cercando però di far dialogare queste sonorità anche con un certo folklore cinese. Questo non solo a livello di strumenti, ma proprio nella struttura armonica e narrativa della musica. Abbiamo trovato soluzioni che suonano più orientali che europee. Mi sarebbe piaciuto adottare un approccio più wagneriano, con quel trionfo tipico del cinema americano, ma in Italia non funziona: ci ho provato, ma suonava quasi comico. Così abbiamo scelto una strada più europea, più asciutta. Per le registrazioni abbiamo lavorato con un’orchestra di Praga, ed essendo anche io un compositore sono stato coinvolto direttamente in questo processo. Per quanto riguarda il suono, è stato un lavoro fondamentale. Il sound designer è Mirko Perri, con cui collaboro da anni e che ha lavorato anche su Freaks Out  e Lo chiamavano Jeeg Robot. Conosce bene quanto per me il suono sia parte integrante del racconto. Trovare l’equilibrio tra musica, suono e narrazione non è stato facile, ma Mirko ha fatto un lavoro straordinario. Quello che ha realizzato in Freaks credo non abbia precedenti nel cinema italiano, almeno a livello di sound design. E lo dico senza prendermi alcun merito: è tutto suo. Mirko lavora anche con registi come Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, ed è incredibile vedere quanto si diverta a sperimentare quando si tratta di azione e di racconti più dinamici, come in questo film. Volevamo che ogni elemento sonoramente scenico fosse realistico, dalle ambientazioni fino al suono dei cazzotti, tanto caro ai film di genere kung fu. Anche se Yaxi (Liu), che interpreta Mei, mi ha rimproverato dicendomi che avremmo dovuto spingere di più (ride) ed io le ho risposto: «Scusami, ma sono europeo».