Francesco Russo: “L’ironia mi appartiene come chi ha gli occhi azzurri”

    Francesco Russo
    Francesco Russo, visto in "Call My Agent" e "M – Il figlio del secolo", è il protagonista della prima cover tutta digitale di Fabrique.

    Noi siamo la sua prima cover, ma anche lui è una nostra prima volta. Con Francesco Russo inauguriamo la cover solo digitale di Fabrique du Cinéma, senza rinunciare al cartaceo ma abbracciando nuovi formati.

    Ad aprire le danze un attore che confonde i puristi del physique du rôle e svela ogni volta potenzialità diverse, cambiando metodo e approccio in base al personaggio. Ha iniziato a teatro quand’era appena un bambino, innamorandosi di Rossella Falk, Tino Buazzelli e Totò. Nel cinema e nella serialità sta schivando la trappola dei generi muovendosi tra commedia, thriller, horror e costume. Prima stagista martellante in Call my agent e poi il mostro dietro al mostro in M – Il figlio del secolo, dove emerge in maniera sorprendente accanto al gigante di Luca Marinelli, nel ruolo di Cesare Rossi grazie a una delle scommesse di casting più felici del progetto.

    Parliamo di tutto, ma a colpirmi di più sono due cose. Il motivo per cui ha iniziato a fare l’attore: «Perché mi dicevano che ero bravo. Ma col tempo capisci che una persona non verrà mai a dirti che fai cagare, e se lo avessi saputo prima adesso farei il geologo». E poi i dubbi, lo studio e la ricerca sul concetto di recitazione: «Mi domando spesso cosa significa recitare bene. Il naturalismo cos’è? Come si dicono le battute? Con lo sguardo languido a filo macchina? Nella vita vedo degli atteggiamenti di persone reali che, se venissero replicati da un attore, all’orecchio del pubblico potrebbero stonare. Magari direbbero che quell’attore sta recitando male. Forse nella vita si recita male?».

    Con Cesare Rossi hai fatto un lavoro completamente diverso dai precedenti. Sei emerso da una macchina enorme, con un cast corale e proprio accanto a Luca Marinelli, con cui dividi alcuni dei momenti più inediti e umani della storia.

    Sicuramente c’era la volontà di far emergere il personaggio di Cesarino Rossi, di raccontare un rapporto umano che andasse anche al di là del racconto storico. Come si emerge? Non lo so. Ho cercato di non lasciare nulla al caso, di lavorare in stretta relazione con il Benito Mussolini di Luca Marinelli, di seguire le richieste molto tecniche ed emotive del regista. Il mio modo di lavorare è creativo, non sono un attore che riesce a fare tutto quello che gli viene chiesto ma invento degli atteggiamenti, dei comportamenti da mettere sulle scene e sulle battute.

    Un esempio pratico?

    Ritenevo il mio fisico “troppo 2025”, così ho pensato fosse giusto fare un lavoro sulle pose. Ho studiato foto di uomini dell’epoca, figli della leva obbligatoria con grandi fisicità e mascolinità, con dei colli importanti e un atteggiamento diverso della testa. Spesso facevo le scene partendo proprio dalla postura. Ho cercato poi lo sguardo ironico che Cesare Rossi aveva sulle cose, e che avevo intuito attraverso i suoi libri. Infine ho provato a creare una lingua che non fosse coerente filologicamente, ma che rispondesse alle domande che mi ero posto. Rossi nasce a Pescia in provincia di Pistoia, ma a dieci anni va da uno zio abruzzese e poi a Roma a lavorare. Io penso che non esista il dialetto corretto, ognuno è imbastardito dai luoghi che ha conosciuto, quindi mi sembrava giusto dare a Cesarino delle “sporcature di pronuncia”, imbastardire quel suo toscano del Novecento con una musicalità abbruzzese.

    C’è molto studio dietro.

    Il lavoro di ricerca prima di arrivare sul set mi tiene in vita e mi diverte, almeno faccio pure finta di lavorare!

    E ci sono anche tantissimi registri, per una parabola che include: sudditanza, ingegno, comicità, funambolismo per essere uno dei pochi a comprendere e tenere a bada “il mostro”, fino a quella meravigliosa presa di posizione finale. Il più interessante?

    La questione funambolica è stata molto interessante, perché non potevo prevederla. Dovevo tenere a bada il mostro, certo, e quindi senza mostro che cazzo potevo preparare? Mi ha aiutato notare che Luca aveva un’importanza fisica e vocale molto forte sul set, metteva tutta quell’energia e quell’intenzione che io provavo a schivare. Mi appoggiavo a lui, ed è quella che io chiamo “la recitazione da parassita”. Aggrapparsi a quello che viene è molto utile, se hai uno bravo in scena. Poi Joe Wright ci aveva chiesto di lavorare su un’amicizia tossica tra due maschi tossici, quindi era divertente anche provare a fare la gara a chi ce l’ha più duro. Un gioco da bambini tra due persone che hanno in mano le scelte politiche di un Paese.

    La vostra coppia è uno degli aspetti più forti della serie. Quali erano i punti di forza reciproci?
    Io e Luca ci siamo molto confrontati sulle nostre idee di recitazione, e abbiamo scoperto di avere due modi molto diversi di stare sul set. Se leggi un mio copione è parecchio scritto, lui invece si appoggia più all’istinto. Luca riesce a trovare dei momenti di vita lavorando in questo modo, mentre io questa animalità in scena non ce l’ho, e se non trovo subito quell’istinto allora scrivo. Da Luca ho imparato anche il coraggio di fare una scelta, prendere una direzione. Ho visto come regge i primi piani: è molto vivo con gli occhi, mentre molti di noi fissano lo sguardo per essere più intensi e così perdono energie. Invece a lui ha colpito il mio sguardo ironico, lo trovava provocatorio, e infatti come Mussolini portava in scena quell’incazzatura.

    C’è una grande differenza tra il tuo personaggio in M e quello in Call My Agent: cosa hai dovuto costruire e decostruire in entrambi i casi?

    In Call My Agent ho cercato di togliere tanti ragionamenti sovrastrutturali e di imparare le battute così bene da poterle dire velocemente. Come avrai notato, nella vita tendo a essere un po’ pedante, ma prima di iniziare la serie sono stato qualche settimana nella mia agenzia e ho visto un ritmo molto serrato, quasi su un unico beat – mail telefono, telefono mail. Per questo avevo bisogno di una memoria veloce. Invece su Cesare Rossi ho messo più di quel che ho tolto. C’è una base personale, ho fatto quella che banalmente si chiama “sostituzione”.

    E con cosa hai sostituito, per trovare quel fanatismo?
    Con una rabbia molto infantile: quella di pensare che esista un sistema nel mondo del lavoro. Così come Cesare Rossi si sentiva escluso da un certo mondo di intellettuali.

    A 5 anni eri già sul palco con il ruolo di Peppeniello in Miseria e nobiltà. Eri davvero un bambino megalomane e un po’ antipatico come dici?

    Pensa che a 12 anni un giornale locale scrisse che io avevo rovinato lo spettacolo che era venuto a recensire. Come vedi pure il rapporto con la critica è qualcosa che ho superato presto…

    Quindi perché a 5 anni si decide di voler fare l’attore?

    Mio padre è geologo, mia madre lavorava all’ASL e non mi hanno mai ostacolato. Ho sempre voluto venire a Roma per fare l’Accademia Silvio D’Amico, a 12 anni scrivevo su Facebook a chi ci studiava. Era un’ossessione, una cosa malata, guardavo gli sceneggiati degli anni Cinquanta della Rai, Rossella Falk e Tino Buazzelli per me sono stati i più grandi. Non ho mai pensato al cinema, perché escluso Totò il cinema l’ho scoperto a vent’anni.

    Qual è stata la folgorazione?

    Secondo me è molto banale, ed è il motivo per cui tanti hanno il desiderio di fare gli artisti. Sentivo che mi dicevano che ero bravo.

    Ed è bello sentirselo dire?
    È una rovina. Perché col tempo capisci che una persona non verrà mai a dirti che fai cagare. Tu hai mai detto a un attore “bel film di merda”? Ecco. Se lo avessi saputo prima, forse adesso farei il geologo.

    Ti credevi drammatico e ti hanno ridisegnato comico. Come è andata?

    Poi ho scoperto che la comicità era una cosa molto seria, e io più serio ero e più facevo ridere. Infatti quando l’obiettivo non è la risata, devo stare molto attento a non essere troppo serio, perché sennò faccio ridere.

    Però stai toccando qualsiasi genere. Penso anche al ruolo in A Classic Horror Story.

    Secondo me è dipeso dal fatto che ho iniziato facendo tantissime cose comiche, che in Italia sono spesso piccole e a basso budget. Forse questo mi ha fatto conquistare una una certa versatilità sul set. Io cerco di cambiare metodo ad ogni provino: su Call My Agent ho preparato solo le battute per trovare il ritmo, su L’amica geniale ho studiato i libri e le didascalie di Elena Ferrante, erano il mio monologo interiore secondo il metodo Chubbuck. Non cerco un risultato, mi diverte cambiare approccio e ascoltare il regista. Dell’horror non sapevo niente, ma Strippoli e De Feo sono due esperti e ho lasciato che mi dirigessero loro. De Feo mi ha detto «cammina così», e io non sapevo perché dovessi farlo né mi sono posto il problema. Ho camminato così.

    Cambiando sempre metodo, la tua bussola qual è?

    Non avendo mai studiato recitazione cinematografica ma solo teatrale, mi sono sempre appoggiato al pubblico. Ascolto quello che c’è intorno, cerco di non controllare tutto, spesso è il respiro del pubblico a decidere.

    Sul set come fai?
    Anche il set ha il suo pubblico. Mi è capitato di lavorare con la troupe come spettatrice. Il respiro degli elettricisti e dei fonici lo senti. Questo non è talento, significa essere una bandiera al vento e dire: io sono questo.

    Sorrentino è stato tra le guest di Call My Agent, ti ha incontrato sul set e poi ti ha chiamato per un piccolo ruolo in Parthenope. La storia vera?

    Io non recitavo quel giorno. Mi ha detto: Io te chiammo, eh. E io: «Grazie». E lui: Oh, meno cuntent, eh?. Poi effettivamente mi ha chiamato a fare un provino, io ero pelato come in M e quindi sono andato con un cappello. Lui mi ha fatto: Levate ’stu cappiell, e subito dopo: «No no, rimettitelo. È un ruolo piccolo, va bene lo stesso? ». «Certo».

    Arriviamo a questo famoso physique du rôle: esiste, non esiste? Ce l’hai, non ce l’hai? Ti penalizza, ti avvantaggia?

    Io non credo di avere gli strumenti per analizzarlo. L’unica cosa che noto è che in fase di casting si cerca di fare un doppione, cioè quello che è stato scritto deve corrispondere fisicamente, quando invece la vita è fatta di testi e sottotesti. Ciò che diciamo non è quello che pensiamo, ciò che siamo non è quello che mostriamo, perciò questo atteggiamento rende tutto molto uguale. Il personaggio di Cesare Rossi in M era una scommessa incredibile, perché è storicamente diversissimo da me, così come Luca da Mussolini. Poi ci sono anche attori amici miei bravissimi che lavorano meno, e magari loro dicono: «Mortacci tua che sei nato così». Quando io parlo di physique du rôle non parlo solo di fisico ma anche di voce, e la mia è molto caratterizzata.

    Infatti credo che il tuo più grande fattore di rischio non sia la fisicità, ma l’ironia.

    Vero. E quell’ironia io non credo di poterla eliminare sempre. Mi appartiene come chi ha gli occhi azzurri, posso abbassarla ma devo lavorarci per forza.

    Io e te condividiamo la stessa missione su fronti diversi: colonizzare il discorso d’autore attraverso il pop.

    Certo, e se ci pensi anche M è un progetto pop d’autore. Chi differenzia le due cose ha uno sguardo molto puerile, è una persona che non ha pubblico.

    Qual è la cosa più pop che faresti se avessi carta bianca?

    Una storia d’amore a teatro.

    Invece nel futuro prossimo che succederà, ora che hai alzato l’asticella con M?

    Uscirà Dedalus di Gianluca Manzetti, un thriller in cui faccio un influencer mezzo drogato e grottesco. Poi una commedia sul Fantacalcio per la regia di Alessio Maria Federici, in cui interpreto un giovane padre di famiglia completamente preso da questo gioco, e sono in un cast bellissimo con Silvia D’Amico, Giacomo Ferrara, Enrico Borrello e Antonio Bannò. Infine un piccolo ruolo nella nuova serie di Bellocchio e ovviamente nel 2025 uscirà Call My Agent 3.

    Fotografa @robertakrasnig
    Stylist @flavialiberatori_
    Hair: @adriare_hairdesigner
    Makeup @idlmakeup
    Location: @thecineclubroma
    Prodotti: @davinesitalia