Come se non ci fosse un domani: la meglio gioventù di Ultima generazione

    Come se non ci fosse un domani
    "Come se non ci fosse un domani", il documentario di Riccardo Cremona e Matteo Keffer sugli attivisti di Ultima generazione.

    Ricordate i ragazzi di Ultima Generazione, che richiamavano l’attenzione sulla crisi climatica “sporcando” l’acqua della Fontana di Trevi o imbrattandosi di fango davanti al Senato? Come se non ci fosse un domani racconta la loro storia, per non scordarci della loro lotta. Presentato alla Festa del Cinema di Roma e nelle sale in questi giorni, il documentario è il primo lungometraggio girato dal duo Riccardo Cremona e Matteo Keffer, che da anni lavorano su temi sociali e ambientali. Riccardo Cremona insegue da sempre le storie e posa uno sguardo sensibile e curioso sulle vite che sceglie di raccontare, che sia un uomo alla ricerca di una moglie russa su un sito internet, un prete di campagna pronto ad accogliere chi ne ha bisogno o le partecipanti a un concorso di bellezza per sole ragazze di origine cinese in un casinò di Venezia. È la cura narratologica a fare la differenza tra un buon documentario e una bella idea e in questo Matteo Keffer dà prova del suo talento, affrontando temi come la droga, l’ecosostenibilità, le speculazioni edilizie e gli abusi governativi. Grazie a una lunga esperienza televisiva, Keffer realizza reportage in Italia e all’estero con uno sguardo lucido e un’impareggiabile attitudine alla narrazione d’inchiesta. Nel convergere, le abilità di entrambi trovano spazio e respiro in un lavoro impegnativo, scomodo, che raramente trova finanziamenti e pubblico in Italia.

    Quale è stata la genesi di Come se non ci fosse un domani?

    Alla fine del 2022 io e Riccardo ci trovavamo a lavorare per un programma televisivo e a me capitò di girare uno dei primi servizi dedicati a Ultima Generazione. Dopo la messa in onda, ne parlammo riconoscendoci entrambi affascinati dal coraggio e dalla determinazione che questo gruppo di ragazzi esprimeva sedendosi per strada. Volevamo saperne di più e incontrammo Michele Giuli, uno dei fondatori di UG. Pochi giorni dopo eravamo in macchina diretti a Courmayeur per documentare il blocco del tunnel del Monte Bianco, convinti che qualsiasi fosse stato l’esito di questa nascente esperienza politica avrebbe meritato il tentativo di un racconto cinematografico. Volevamo esserci.

    Matteo, tu fai parte di Extinction Rebellion, è questo che ti ha permesso di entrare in contatto con Ultima generazione?

    Per un paio d’anni ho contribuito all’esperienza del gruppo romano di Extinction Rebellion che si creò dopo l’incredibile Rebellion Week del 2018. Fu un momento di grande, storica e felice partecipazione, in cui migliaia di persone per una settimana paralizzarono Londra per chiedere al governo britannico di dire la verità sulla crisi climatica e occuparsene seriamente. La disobbedienza civile non violenta può essere uno strumento efficace per ottenere dalla politica risposte concrete, ma ha bisogno di partecipazione. Basti pensare all’occupazione di Hambach, una foresta millenaria minacciata dall’espansione della più grande miniera di carbone a cielo aperto dell’Europa occidentale. Un piccolo gruppo di persone getta il cuore oltre l’ostacolo, costruisce case sugli alberi dove vivere difendendo la foresta, pronto a sopportare anche il rigido inverno tedesco. Quel gesto di coraggio di pochi attira migliaia di persone che raggiungono Hambach da tutto il paese costringendo il gigante dell’energia RWE a rivedere i suoi piani. La foresta è salva, ma ancor più importante, nei cuori delle persone c’è una scintilla nuova, la consapevolezza che insieme si può ancora fare la differenza.

    Quale è stata la parte migliore e quale la più complicata del filmare le azioni e la quotidianità degli attivisti?

    Considerato il trattamento che i media tradizionali hanno da subito riservato a UG, anche le nostre macchine da presa all’inizio risultavano scomode e invadenti. Per lunghi mesi è stato difficile guadagnare la loro fiducia, faticavamo a far passare l’idea che poter documentare le difficoltà, le incertezze o gli errori del percorso, per noi era cruciale. Solo l’essere ripetutamente presenti, in orari, luoghi e situazioni complicate ci ha permesso di stabilire nel tempo un rapporto diverso: esclusivo. A un certo punto abbiamo sentito che stavamo diventando i custodi della memoria delle loro vite in un momento molto importante che solo noi potevamo osservare così da vicino. Dopo aver girato per quasi due anni, lo sguardo e la pazienza del montatore Roberto Cruciani hanno contribuito in maniera determinante a orientarci tra le centinaia di ore di materiale e dettare il respiro della storia.

    A livello produttivo, quali ostacoli avete incontrato nel finanziamento e nella distribuzione di questo documentario? Come è nata la collaborazione con Motorino Amaranto e quindi con Paolo e Ottavia Virzì e Marco Belardi?

    Siamo stati molto fortunati a incontrare Ottavia e Paolo Virzì, la Motorino Amaranto ha manifestato da subito un grande interesse nei confronti di questa storia permettendoci di seguire in giro per l’Italia le vicende dei ragazzi e accogliendo una miriade di imprevisti con grande tolleranza ed elasticità, senza le quali sarebbe stato impossibile raccontare questa vicenda. Inoltre, la collaborazione con lo scrittore Paolo Giordano – che ha partecipato allo sviluppo della narrazione – ha apportato un punto di vista prezioso aiutandoci a definire e aggiornare la nostra postura rispetto al racconto.

    Come se non ci fosse un domani racconta le azioni di UG e mostra il dietro le quinte. Ma ci permette di vedere anche qualcos’altro: la difficoltà nel fare comunità, nel farsi ascoltare, nel far capire agli altri l’urgenza di un’azione non-violenta ma d’impatto. Mostra anche molta rabbia, da parte degli attivisti ma anche della folla, del cittadino infastidito. Cosa siete più fieri di aver fatto emergere e cosa avreste voluto portare più alla luce?

    All’inizio ci sembrava incredibile che non ci fossero decine di giornalisti e documentaristi a raccontare questa vicenda. Poi abbiamo capito che salvo rare eccezioni i media la stavano trattando come una storia qualsiasi, senza capire il senso di ciò a cui stavano assistendo. Siamo fieri di aver fatto emergere la disconnessione totale dalla realtà che determina le scelte della maggioranza e il cinico opportunismo di chi pur di guadagnarci un po’ di consenso o soldi insiste nel negare l’evidenza. Ma soprattutto questo è il nostro piccolo ma sincero atto di amore non per UG in sé, ma per chi non ha paura di lottare per il bene comune nonostante le conseguenze. Molti elementi non hanno trovato spazio: tante storie personali che ci hanno emozionato, la serietà con cui i ragazzi affrontano i processi decisionali, la difficoltà di creare gruppi locali, il rapporto con le altre realtà in lotta, gli inviati dei talk show infiltrati sotto mentitCome se non ci fosse un domanie spoglie nel gruppo. Ma in un film di 90 minuti devi fare delle scelte e noi siamo contenti dell’equilibrio raggiunto.

    Cosa, a vostro parere, può fare l’industria dell’audiovisivo per sostenere la causa e portare l’attenzione sull’emergenza climatica e sulla realizzazione di un cinema sostenibile?

    Noi viviamo di narrazioni e la crisi climatica ha un grande problema di narrazione. Negli ultimi anni solo il cinema documentario ha tentato di esplorare quello che sta accadendo veramente e quali saranno le ripercussioni sulle nostre vite se non invertiamo la rotta. Ecco, il cinema ha una grossa responsabilità nel creare e nello stimolare l’immaginazione necessaria per affrontare questo nuovo contesto che riguarda tutti, indistintamente. Sono ancora pochi i titoli importanti in questo senso, a livello internazionale mi viene in mente la serie Extrapolations diretta da Scott Z. Burns che, forte di un cast stellare (Meryl Strep, Sienna Miller, Marion Cotillard, Tobey Maguire, Forest Withaker, Edward Norton), ragiona sulle conseguenze della crisi climatica sviluppando un racconto che inizia nel 2037 e si conclude nel 2070. In Italia, se non mi son perso qualcosa, l’unico regista che ha ambientato un suo film in un futuro prossimo dove la scarsità d’acqua avrà ripercussioni violente sulla società, è proprio il nostro produttore Paolo Virzì con il suo Siccità.

    Questo progetto è concluso o avete in mente di tornare a seguirne l’evoluzione? Come credi che sia stato percepito questo lavoro dal pubblico?

    All’inizio il nostro primo istinto è stato immaginare un film che seguisse per molti anni le vicende pubbliche e private delle persone di UG e allo stesso tempo gli sviluppi della crisi climatica. Ma nella storia che raccontiamo il fattore tempo è centrale, quindi c’era l’urgenza di fare uscire questo film il prima possibile perché potesse contribuire a suo modo a tenere alto il livello dell’attenzione sia sulla questione generale della crisi climatica che sul tema della repressione del dissenso, messa in atto dal governo anche con leggi ad hoc pensate per colpire UG e movimenti simili. Conserviamo l’idea che questo racconto possa proseguire e non è detto che non succederà. Dalle reazioni che abbiamo registrato in sala e fuori ci sembra che il film stia facendo quello che speravamo: portare chi lo guarda a farsi delle domande sincere.

    Il movimento sembra aver cambiato metodo, scegliendo di organizzare più manifestazioni autorizzate e legali, per essere più sostenibile ma anche per potersi espandere attraverso un approccio costruttivo. Cosa è andato storto in una comunicazione tesa a sensibilizzare e che invece sembra aver alienato larga parte dei media e della popolazione?

    Quello che è andato storto è che alla maggioranza delle persone non interessa più di tanto della crisi climatica. Abbiamo la segreta speranza che alla fine non andrà poi tanto male oppure siamo vittime della disinformazione ben organizzata e ben pagata dalla ricca industria dei combustibili fossili. I membri di UG non hanno soldi, hanno solo i loro corpi e la lucidità di guardare in faccia una realtà che quasi nessuno vuole accettare per quello che è davvero. Comunicano male? Può essere. Ma credo che praticamente nessuno sia nella posizione di poter giudicare i loro metodi o la loro efficacia. Dovremmo piuttosto giudicare noi stessi e la nostra indifferenza. Non colpevolizzarci, ma essere semplicemente onesti. Poi certo, è difficile organizzare una mobilitazione di massa efficace senza risorse e senza grossi appoggi politici o di opinione. Ma la crisi climatica riguarda ogni singola persona su questo pianeta e le informazioni sulla situazione sono chiare e a disposizione di chiunque. Se non ci sentiamo coinvolti è a causa della nostra disconnessione dalla realtà, non dell’inefficacia di chi grida disperatamente di svegliarci.

    Si parla di eco-ansia, l’interesse per il clima si è fatto questione generazionale, un’idea che non a caso incide sulla scelta del nome del movimento UG, confine ultimo di azione – di salvezza. Cosa unisce quindi, questa generazione che teme la fine, che vuole salvare tutti ma viene definita criminale, mentre le istituzioni negano e le aziende fanno greenwashing?

    L’ansia è un sistema di allarme che si attiva quando c’è un disequilibrio profondo, una disarmonia fra l’esperienza interiore e la realtà. La cosiddetta eco-ansia è il risultato della constatazione dello squilibrio fra la gravità della situazione e le misure messe in atto per contrastarla. Le persone giovani sono meno propense a farsi abbindolare dalle fandonie, hanno capito benissimo che c’è qualcosa che non va nel sistema e sono incazzate perché toccherà a loro fare i conti con le conseguenze delle scelte fatte finora. Dovremmo essere con loro, ma invece le odiamo perché non sappiamo più come si fa a cambiare, cosa vuol dire ribellarsi. Non contempliamo l’idea di sacrificare nulla, neanche quando ne va della nostra stessa sopravvivenza come specie. Quindi è normale che se ci bloccano nel traffico per venti minuti li prendiamo a calci in faccia. Chissà se un giorno ci perdoneranno.

    Perché è così potente la forza della negazione nonostante le prove e le evidenze scientifiche ormai note a tutti? E perché credete che il governo abbia avuto un orientamento così repressivo verso gli attivisti dell’emergenza climatica?

    Il mondo gira secondo le regole della competizione e del mercato, dove l’idea è “chi si ferma è perduto”: ma la transizione energetica sarebbe un buon affare per tutti, servirebbe solo il coraggio di affrontare un cambio di paradigma epocale senza aver paura di smontare il mito fondativo del capitalismo, cioè la crescita a tutti i costi. Il negazionismo è la reazione violenta e organizzata di chi non intende smettere di guadagnare miliardi sulla pelle di tutti gli altri, neanche se il prezzo è la distruzione definitiva della vita sulla Terra. Poi si può credere ciò che si vuole e chiamarlo maltempo, sfortuna o crisi climatica, ma la realtà è che gli eventi estremi sono sempre più frequenti e disastrosi, la gente muore, perde le case e il lavoro e i risarcimenti non arrivano. Servirebbero piani urgenti di messa in sicurezza del territorio da attuare immediatamente. Il governo reprime perché non ha risposte e non intende averne. La destra basa la sua esistenza sulla continua fabbricazione di nemici con cui popolare l’immaginario delle persone. Producono un’allucinazione collettiva che si appoggia su istinti molto umani, la paura per la propria sicurezza e la propria libertà. Il paradosso è che la crisi climatica produce effetti ben più spaventosi sulla vita delle persone.