Andrea Lattanzi ci piace, e tanto. In scena ha l’istinto dell’animale sciolto, ma anche il paracadute sempre pronto: ha studiato molto, e questo gli evita lo schianto. La sua filmografia merita già attenzione: il premiatissimo Manuel di Dario Albertini, tre stagioni di Summertime su Netflix, La svolta di Riccardo Antonaroli, Grazie ragazzi di Riccardo Milani e tutto quello che – siamo sicuri – verrà, a partire dai due progetti in lavorazione (Io e il Secco di Gianluca Santoni e l’opera prima di Maria Tilli). Durante la chiacchierata ci ritroviamo a citare Marinelli e Germano, in particolare “quella scena” devastante in un film di Luchetti. Allora azzardo e faccio una scommessa: il suo destino è quello. Ha il talento naturale di far vibrare una battuta con un gesto, e quand’è così c’è poco da aggiungere.
Sei reduce da un altro viaggio a New York, dove tutto è iniziato.
È stato stranissimo tornare lì. Ci ho vissuto un anno e mezzo, avevo vent’anni ed era poco prima di girare Manuel. Ho fatto un tour nostalgia.
Quando l’hai lasciata avevi vent’anni, com’eri messo?
Male. Ero messo male [ride ndr]. Non c’avevo più una lira, ho dormito per strada. Chiamare mia madre non era fattibile, si sarebbe preoccupata.
Mi sembra di parlare con Patti Smith e Robert Mapplethorpe, questa tua New York randagia e pericolosa.
Guarda che sono finito in situazioni che, se sono vivo, è solo per miracolo. È stato bellissimo e traumatizzante. La verità è che ci ero andato per entrare all’Actors Studios, ma passavo lì fuori e non avevo il coraggio di entrare, mi metteva ansia e poi chissà che mi sognavo. Fatto sta che dopo un anno e mezzo ho trovato su Facebook un concorso RB Casting con Carlo Verdone, Lina Wertmuller e Daniele Luchetti in giuria. Bisognava portare un monologo in romanesco. Lì mi sono caricato, sono andato con la convinzione di voler vincere.
E se questo fosse un film, la prima svolta sarebbe il momento in cui tu dici a Verdone: «Però a me non me devi ferma’». Racconta.
Succede che su mille provinati, il ragazzo che si esibisce prima di me porta il mio stesso monologo. Assurdo. Carlo Verdone lo blocca dopo pochi secondi, perché aveva fatto pietà. Io capisco che non è aria e faccio per andarmene, invece mi sento chiamare: «Andrea Lattanzi». Mi blocco, mi giro, butto la borsa per terra e arrivo davanti a Verdone: «Guarda, ti porto lo stesso monologo di quel ragazzo». Lui allarga le braccia: «No, pure te!». E lì mi viene quella faccia da culo di dirgli: «Sì, però a me me lo devi fa’ fini’». Lui mi fulmina per qualche secondo, poi si infila le cuffie: «Ok. Quando vuoi tu». Faccio tutto, riprendo la borsa e poi esco in lacrime.
Stacco: ti chiamano, sei tra i dieci finalisti, e da lì parte tutto.
Sì, poi Dario Albertini vede il monologo incriminato su YouTube e mi chiama per il provino di Manuel.
L’amore per il cinema – hai raccontato – è nato per distrarti da certi demoni che ti porti dentro.
Ti dico una cosa: a me dà fastidio chi gioca su questa cosa, “io vengo dalla strada”. Chi viene veramente dalla strada non ci vuole più torna’. Io l’asfalto l’ho mangiato e non voglio stare qui a sfoggiarlo, anzi, me ne vergogno. Non ne parlo, perché ho fatto cose di cui non vado fiero. Quando dico che questo lavoro mi ha salvato la vita è vero, ma io ho studiato per farlo, era una passione. Però per tornare alla tua domanda: bisogna dargli da mangiare, ogni tanto, a ’sti demoni.
Sì, ma mentre il mondo brucia noi stiamo qui a parlare di cinema: voglio dire, perché fai l’attore?
Perché è una cosa che amo, e mi distrae da quello che accade intorno, dai disastri e dalla miseria. Ne soffro, ma anche qui mi dissocio dal metterlo sui social e partecipare alla fiera dell’ipocrisia. Da una parte pure quando recito mi tornano fuori i mostri, anche perché non sono uno stinco di santo. Vado tuttora in terapia, ogni tanto dico che dipende da questo mestiere, ma non è vero. Ci vado perché ho fatto un sacco di cazzate in vita mia. Ci sono state grandi mancanze che mi hanno lasciato dei traumi.
Manuel è il film che ti ha cambiato la vita. Hai detto che sei nato con il cinema d’autore ed è lì che vuoi tornare.
Io ho sempre voluto fare cinema d’autore, non avrei mai scelto di fare nessun altro tipo di progetto. Sono incazzato perché in Italia diciamo che non c’è più la cultura della sala, ma se tu un film come Manuel lo distribuissi nello stesso numero di copie che concedi ai film mainstream o americani, magari qualcosa cambierebbe, no?
Non c’è niente che ti pesa fare?
Mi pesa quando non trovo sensibilità sul set, quando manca tatto verso gli attori. Se lo fai notare, magari ti rispondono con l’esempio dell’America, “quell’attore però si è buttato in una vasca a meno venti gradi”. E certo, chissà in che condizioni di lavoro l’hanno messo per farlo, lì ci sono i soldi e le cose si fanno in grande. Ma io non vado a mori’ a meno venti gradi per i cazzi tuoi. Se non amassi così tanto questo lavoro, certe volte me ne andrei.
Quanto conta questa tua faccia in questa tua carriera? A Roma non ti definiremmo un bello canonico, ma uno che tira.
Io nel dubbio cerco sempre di fare bella figura ai provini. Germano o Marinelli per me sono bellissimi. Di essere un Ken non mi importa, non mi sono mai detto allo specchio: “Ammazza Andre’, quanto sei bello”. Il concetto di bellezza al cinema andrebbe davvero sdoganato, soprattutto per le attrici. Conosco colleghe bravissime che farebbero numeri rispetto ad altre che sono ora in circolazione. Però ci sono pure i belli e bravi, eh, non è che mo’ dobbiamo essere tutti intriganti.
Cover Fabrique: non ti chiedo cosa sogni, ma dove pensi di poter arrivare.
Ho tanta fame di questo lavoro e ho appena iniziato. Ho le idee chiare, quando vado a dormire me le proietto tutte in testa. Mi avevano preso per due progetti esteri importanti, ma ho dovuto rifiutare perché stavo girando altro. Il fatto che abbiano già bussato mi fa pensare che capiterà ancora. Non mi interessa andare fuori dall’Italia per avere successo, è che voglio vedere come fanno il cinema dall’altra parte. Qui, invece, sogno di lavorare con i più grandi registi che abbiamo
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