Amor, una storia d’amore e di fantasmi

Amor
"Amor", l'esordio di Virginia Serpieri Eleuteri, è un ritratto struggente della madre scomparsa che ha vinto l'ultimo Unarchive Found Footage Fest.

Nella sua opera d’esordio, Amor, selezionata alla 80 Mostra del Cinema di Venezia, candidata agli IDFA Award 2023 e vincitrice a giugno all’Unarchive Found Footage Fest, Virginia Serpieri Eleuteri fa del cinema un mezzo per riempire un profondo vuoto e riparare un dolore.

Lo trasforma in una macchina del tempo per tornare indietro a una sera d’estate di molti anni prima, quando durante la finale dei mondiali di calcio, sua madre Teresa uscì di casa, raggiunse il Tevere e si lasciò andare alla corrente. Da allora lei, Virginia, l’ha cercata per Roma e nelle sue acque, e l’ha ritrovata nelle immagini. Il risultato di questa ricerca è una pellicola struggente, catartica e vibrante che attraversa l’acqua, la storia e il mito e ritrova una Roma perduta e senza tempo.

Non c’è un altro modo per definire il tuo film se non “poema visivo”. Visivo all’ennesima potenza, trattandosi di cinema e fotografie, o meglio di un film fatto di fotografie, ma anche poema storico che attraversa le epoche, dall’antichità ai giorni nostri. Ma come è nato questo progetto? Fin dalle sue origini ha avuto questa struttura?

Sì, anche se per ottenere questo risultato ci sono voluti vent’anni. Quando è morta mia madre nel 1998 ho sentito subito la necessità di raccontare questa storia, però all’epoca non ero pronta, sia per questioni di formazione, sia per questioni emotive e psicologiche. Poi l’elaborazione del lutto si è incrociata con l’esigenza di lavorare con le immagini e quando mi sono sentita più matura è arrivata l’idea giusta. Facevo sempre un sogno ricorrente in cui mi tuffavo nel fiume come lei, e là sotto c’erano delle luci: quelle luci erano sue fotografie, tutte strappate, e io cercavo di ricomporle. Anche nella realtà questo percorso è incominciato proprio così, ricomponendo le sue foto. La storia di mia mamma che si è gettata nel fiume quella notte si è legata con la storia di Roma, perché sotto a quel fiume c’erano tantissime altre storie che io dovevo scoprire. Ho capito che il miglior modo per raccontare la mia vicenda era raccontarla attraverso Roma, e che così avrei potuto raggiungere due obiettivi: avvicinare le persone all’immaginario di questa città, ormai ridotta a una cartolina, e usare una storia pubblica, che appartiene a tutti, per raccontare una storia molto privata.

Roma è la seconda protagonista del film, una città-donna, una città-acqua. È cambiato il tuo rapporto con la città dopo il film?

Ora ho rapporto molto più intimo con Roma: fra me e lei c’è stato un incontro, io ho cercato di restituirle quello che mi aveva dato e ora Roma è una doppia casa, non solo perché ci sono nata e ci abito. Credo che il modo migliore per conoscere una città sia camminare. Io cammino tantissimo, come si faceva in passato: camminare ti consente di osservare più da vicino la città, di avere un rapporto più esclusivo con lei e allo stesso tempo ti fa sentire meno solo. Con questo film invito lo spettatore a non avere una relazione attiva con la propria città, per questo all’inizio del film chiedo di chiudere gli occhi e sentirla, immaginarla…

Il cinema è sempre stato il tuo daimon?

La passione per il cinema è nata molto presto. Ho saputo di voler fare la regista almeno fin da quando avevo quindici anni, ma ero timida e poco sicura di me nelle relazioni con gli altri, perciò pensavo che non ci sarei mai riuscita. Quando però ho scoperto un altro lato del cinema, cioè che può non solo raccontare storie dalla dimensione collettiva, ma anche curare ferite molto personali, allora lì ho trovato tutto il coraggio di farcela. Era talmente forte quel sogno ricorrente e quel bisogno di capire che sono riuscita a trovare il coraggio di dirmi “lo devi fare”.

Quindi il cinema è diventato una spinta a cui non hai potuto resistere, ti sei arresa al tuo destino. E a proposito di destino, anche la collaborazione con la Lituania sembra averci a che fare…

È stata la cosa più bella del film, lavorare con loro per me è stato un regalo. Anche perché i lituani hanno una tradizione straordinaria di cinema sperimentale, basti pensare a Jonas Mekas. Edoardo Fracchia, produttore di Amor con Stefilm, aveva già collaborato con Rasa Miskinyte di Era Film per un bellissimo film lituano che si intitola Exemplary Behaviour. Rasa ha letto il trattamento che gli è piaciuto molto e ha deciso di provare a concorrere per i fondi lituani che poi abbiamo ricevuto. Così è nata la collaborazione, insieme abbiamo realizzato tutte le scene di studio, come quelle in macchina, o quelle della città capovolta, grazie alla direttrice della fotografica Elvina Nevardauskaitė. E poi ho avuto la possibilità di dirigere un’attrice meravigliosa, Odetta Tunyla.

Anche il compositore della colonna sonora è lituano, e la musica nel tuo film è un elemento molto importante.

Sì, ho lavorato con un musicista bravissimo che è stato anche candidato ai “David di Donatello” lituani per la musica del film, Martynas Bialobžeskis. Il nostro obiettivo era quello di creare una musica ossessiva per la parte più oscura del film e che accompagnasse il mio viaggio notturno, girato nell’abitacolo della macchina. Tutto in quelle scene doveva dare un senso di claustrofobia, lo spettatore doveva essere con me all’interno dell’abitacolo per poi respirare finalmente quando esco all’aria aperta: in quel momento si interrompe anche la musica, è giorno, c’è finalmente la rinascita.

AmorAmor è frutto anche di un grande lavoro d’archivio.

Il lavoro d’archivio è il centro del film. Prima ancora dell’incontro con la casa di produzione, quando ho preso coscienza che dovevo raccontare questa storia, ho subito avuto l’illuminazione che dovevo raccontarla attraverso il fiume e da lì sono partita, ancora prima di mettermi a scrivere, proprio da una collezione di immagini. All’inizio ho creato un archivio di foto mie personali: giravo per Roma e scattavo foto di dettagli che mi colpivano, legati soprattutto alla Roma perduta come città d’acqua. Poi ho frequentato alcuni importanti archivi, la Library of Congress di Washington, l’Istituto Luce, l’Archivio Piranesi e l’Aamod (Archivio Audiovisivo Del Movimento Operaio e Democratico), collezionando tantissimo materiale. Così ho costruito una sorta di film ancora molto saggistico; poi nel 2018, grazie alla casa di produzione Stefilm e agli Italian Doc Screenings, dove ho presentato il mio progetto, ho riscritto tutto mantenendo la struttura ma togliendo il velo, niente più maschere, siamo rimaste solo io e mia mamma.

Questo è un film da grande schermo, infatti sta avendo la sua distribuzione in giro per l’Italia. Ma come è stato vederlo proiettato durante la Mostra del cinema di Venezia?

La selezione a Venezia è stata una cosa bellissima, non solo dal punto di vista professionale, ma anche perché quando ho visto le foto di Roma con l’acqua ho pensato subito a Venezia! Si è creato un cortocircuito interessante. Il pianeta Amor è ispirato proprio all’immaginario e alla pittura degli artisti veneziani, in cui c’è un rapporto pacificato fra l’uomo e la natura. E Venezia è la manifestazione della natura che si combina con la città nella maniera più armonica. Approdare al Lido sulla barca con il mio film è stata la conclusione perfetta di questo percorso.

Amor è pieno di bellezza. Cosa è per te la bellezza?

La bellezza è qualcosa che ti cura: io ci credo molto, perché mi ha salvata. In passato ero attratta dall’autodistruzione e la cosa che più mi ha curato è stato il rapporto con le immagini. Le immagini sono delle porte. Ti permettono di avere un legame con chi non c’è più, col nostro passato e con le nostre radici, non ti fanno sentire perso. E non dovrebbero essere materia da museo, ma un patrimonio che appartiene a tutti.

Ti sei sempre dedicata alle immagini e al suono esplorando diversi linguaggi e supporti, dalla pellicola super8 alla computer grafica. Ora cosa vedi nel tuo futuro da regista? Continuerai a fare cinema sperimentale o indagherai anche la fiction come mezzo per trasfigurare la realtà?

Mi ha sempre colpito il percorso di Pietro Marcello, che riesce a mischiare finzione e ricerca d’archivio. Io amo i percorsi esplorativi e di ibridazione dei generi, mescolare found footage e racconto più tradizionale. Mi piace quando il cinema continua a essere uno spazio di sperimentazione, anche se a volte mi domando se forse dovrei fare film che chiedano meno allo spettatore. Perché Amor chiede tantissimo.

Il tuo film è una grande storia d’amore. Con Roma, con tua madre, e con te stessa. Ma è anche una storia piena di fantasmi che mi ha fatto venire in mente una citazione di David Foster Wallace che amo molto: «Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi».

Mi fa molto piacere, perché uno degli spunti che mi hanno sollecitato a fare questo film è stata un’altra frase bellissima che recita: «Non si può conoscere una città senza conoscere i suoi fantasmi». Ma ce n’è un’altra ancora: «Le immagini sono storie di fantasmi per adulti». E sicuramente il mio film racconta di due fantasmi, Roma e mia madre.