L’alta definizione nel mercato audiovisivo ha fatto grandi passi avanti: ormai si viaggia sui 4K ed è il formato richiesto da molti network televisivi, Netflix per primo. Tutti vogliamo dalla tecnologia sempre migliori prestazioni, ma la qualità non sempre è strettamente collegata alla tecnologia. In questo caso parliamo di qualità d’immagine, ma il ragionamento che sto per fare potrebbe applicarsi in tantissimi altri campi, dall’ingegneria alla medicina o a tutto lo sviluppo industriale e tecnologico, fino ad influire sulla nostra stessa vita e nell’interpretazione della sua qualità. Sicuramente la tecnologia digitale nel campo della cinematografia ha agevolato tutta una serie di passaggi rendendoli più veloci e fruibili a tutti. Oggi chiunque, anche senza conoscere i principi fondamentali di ottica e di fotografia, se ha gusto e un po’ di cultura figurativa, riesce ad ottenere delle immagini spettacolari. Per non parlare degli enormi vantaggi di gestione per qualsiasi produzione televisiva o cinematografica. Ormai, volendo, un film per il cinema si gira in quattro settimane e in altrettante è già sul mercato.
Ma l’abbaglio di velocità e tecnologia rischia d’ingannarci. Faccio un piccolo esempio: qualche anno fa mentre stavo realizzando un videoclip musicale (Ultra HD) ero alle prese con il primo piano di una giovane modella, molto vicino al suo viso stagliato contro il sole con un 20 mm. Al monitor (classe A) erano ben evidenti dei fastidiosi difetti del viso, una folta peluria bionda da sotto le orecchie fino al mento e la sensazione di pelle a buccia d’arancia sotto gli occhi fino a coprire gli zigomi. Difetti che dal vero non notavo o avrei notato solo avvicinandomi molto maleducatamente al viso della bella ragazza. Ho chiesto l’intervento del truccatore ma il risultato è stato pessimo: vedevo tutti i prodotti applicati al viso che appesantivano l’espressività senza toglierne i difetti. Alla fine, ho scelto la classica soluzione di un filtro davanti alla lente per ammorbidire l’immagine e sostanzialmente ridurre la definizione.
In quell’occasione ho avuto la conferma che la tecnologia per le immagini bidimensionali con la definizione è andata oltre poiché vede quello che noi nella realtà non vediamo e lo mostra in un’iperrealtà spesso dura e fastidiosa ma che soprattutto non lascia più spazio all’immaginazione. Se osserviamo nella realtà il viso di una qualsiasi persona, il nostro cervello non vede e non si sofferma su macchie della pelle, brufoli o peli mal disposti, ma costruisce nel complesso un’idea di quel viso che comprende sicuramente anche i suoi difetti e li compensa con tutto il resto. Il viso è la parte più espressiva del corpo umano e ognuno di noi si fa un’idea dell’altro attraverso l’osservazione complessiva. Se una persona ti è antipatica, facilmente puoi notare e rilevare i suoi difetti; se ti aggrada i difetti spariscono e si compensano con altro. Gli sguardi degli innamorati sono cosi belli e lontani dalla realtà da mettere i brividi perché si osservano andando oltre l’aspetto fisico, usando l’immaginazione.
Ho fatto l’esempio del primo piano di un viso ma l’alta definizione oggi è invadente e poco rispettosa anche in tutte le altre forme d’immagine. Nella storia della fotografia cinematografica, la ricerca della massima visibilità è sempre stata la priorità del mercato e i direttori della fotografia (i più bravi) si sono sempre difesi o hanno assecondato la tecnologia inventando sistemi d’illuminazione per contrastare la crescente visibilità. Si è passati dalla violenta luce incidente per riuscire a scalfire le basse sensibilità delle prime pellicole b/n, alla necessaria luce riflessa con l’avvento del colore. E quanto più le pellicole crescevano in prestazioni, colore, ampiezza di latitudine di posa, sensibilità e definizione, di pari passo si sono inventati sistemi per difendersi da tutta quest’alta visibilità. Oggi con il digitale la maggior parte di registi e direttori della fotografia continuano a cercare di ammorbidire le immagini mettendo filtri davanti la macchina da presa, usando vecchie lenti senza antialo oppure cercando di lavorare con diaframmi molto aperti in modo da avere fragilità nella profondità di campo. Sostanzialmente sono tutti espedienti per lasciare spazio attivo all’immaginazione e rendere le immagini più affascinanti. E ancora oggi i film più belli sono quelli che rispettano questi principi lasciando una forte partecipazione attiva allo spettatore, dandogli la possibilità di completare attraverso l’immaginazione il proprio film e farlo suo.
Per concludere credo che l’alta definizione sia uno slogan commerciale imposto dal mercato audiovisivo che va ridimensionato e contrastato soprattutto per le immagini bidimensionali. Fermarsi ai 2K era più che sufficiente sia per il cinema sia per televisione. La qualità la facciamo noi utilizzando in modo sensato la tecnologia e purtroppo, sempre parlando d’immagini, ci siamo fatti invadere dal mercato: cosi come abbiamo abbandonato le macchine fotografiche sostituite dal facile e ridondante scatto del cellulare, troppo presto abbiamo sostituito il tubo catodico con orrendi schermi tv consumer led o al plasma, che trasformano capolavori cinematografici in soap opera. Il rischio è quello di abituarci a queste mostruosità proposte dal mercato e di non saper più riconoscere la qualità. E non solo, la cosa più triste è che l’alta definizione, togliendoci la capacità di immaginare, ci pone sempre alla spasmodica ricerca di realtà illusorie, un po’ come accade nella pornografia.
Io sono dell’idea che la realtà la crea la mente utilizzando l’immaginazione. Con la tecnologia abbiamo in minima parte insegnato alle macchine a farlo per noi, ma essendo la mente umana infinitamente più complessa (ed ispirata dallo spirito) il risultato è per l’appunto riduttivo e deludente. La tecnologia è autoreferenziale e andrà comunque avanti, ma sta all’uomo decidere se utilizzarla e in che maniera.