Il cinema di Giorgio Diritti è fatto di sguardi, gesti, paesaggi, campi lunghi e altrettanto lunghi silenzi. Non fa eccezione Volevo nascondermi, biopic atipico incentrato sulla complessa figura dell’artista Antonio Ligabue presentato in concorso alla 70esima edizione del Festival di Berlino. Chi meglio di un regista legato alla terra e alla natura per raccontare la storia del pittore contadino? Nei panni di Ligabue, Elio Germano è protagonista dell’ennesima prova d’attore eccelsa. Non era semplice trovare una misura nella rappresentazione degli eccessi d’ira e delle crisi che hanno costellato la travagliata esistenza di Ligabue. Germano interiorizza il personaggio non limitandosi alla pura trasformazione fisica, agevolata dal trucco prostetico che trasfigura i lineamenti dell’attore, mentre il corpo si ripiega deformandosi. Grazie alla sua performance, Antonio Ligabue non è semplicemente una figura tragica, tormentata dalla sofferenza fisica e mentale, ma conserva una sua grazia, ha nello sguardo lo stupore infantile di chi scopre del mondo per la prima volta e a tratti mostra perfino cenni di humor.
Fin dal titolo, Volevo nascondermi lascia intendere la soggettività con cui la storia di Ligabue viene filtrata: suo è lo sguardo che ripercorre le dolorose esperienze vissute, l’incapacità di integrarsi e il desiderio mai sopito per le donne. Giorgio Diritti inaugura il suo film con una potente sequenza di flashback a incastro in cui l’infanzia e l’adolescenza di Antonio Ligabue si intrecciano al presente in cui il pittore, rannicchiato su una sedia in un rudimentale ambulatorio, si nasconde sotto una coperta ripetendo il gesto che era solito fare da piccolo. Per il regista, le radici del malessere del futuro pittore stanno nella perdita prematura della madre a cui seguono difficoltà relazionali con la famiglia adottiva e lunghi ricoveri in ospedale psichiatrico. Con l’arrivo in Italia, Ligabue scopre la pittura e la scultura e trova il modo di dare una forma al suo vivido mondo interiore che confluisce in dipinti coloratissimi, solo in apparenza infantili, ricchi di animali esotici. Con l’arte, arriveranno la pubblica affermazione, le mostre e il denaro, ma questo non servirà ad attenuare la malattia che consuma il pittore.
Volevo nascondermi abbraccia il registro grottesco immergendo lo spettatore in un mondo contadino grezzo, schietto. Il regista si prende tutto il tempo necessario per costruire la psiche del suo protagonista mostrandolo alle prese con la vita rurale e, in particolare, con gli animali con cui dimostra di avere un rapporto speciale. Il paesaggio acquista una valenza importante sia nella prima parte del film, quella svizzera, che nella fase italiana dove la bassa emiliana la fa da padrona. Ma a colpire è soprattutto il lavoro sul linguaggio a cui il filologico Giorgio Diritti dedica la massima attenzione, alternando dialetto svizzero tedesco a emiliano. Frutto di questo incrocio di culture, Antonio Ligabue si esprime con un linguaggio tutto suo, a tratti incomprensibile, fatto di mezze frasi, imprecazioni e urla che si trasformano in latrati. Questa visione naturalistica permea una pellicola ruvida, essenziale, che fa poche concessioni all’intrattenimento. Un’opera solida, meno potente di quanto avrebbe potuto essere, ma lodevole nel voler ritrarre con genuinità una delle figure illustri del nostro pantheon pittorico.