Dopo Zen sul ghiaccio sottile di Margherita Ferri e Saremo giovani e bellissimi di Letizia Lamartire, debutta nell’ottava giornata della Mostra del Cinema di Venezia una nuova opera prima italiana, presentata questa volta nella sezione Orizzonti. Un giorno all’improvviso segna l’esordio di Ciro D’Emilio che, dopo una serie di cortometraggi e collaborazioni come sceneggiatore, decide di raccontare una toccante storia di formazione ambientata in una piccola cittadina della provincia campana. Antonio è un ragazzo di diciassette anni che, tra allenamenti e lavoretti, sogna di diventare un calciatore professionista. La sua vita non è però facile come quella di molti suoi coetanei: mentre il padre l’ha abbandonato da bambino senza alcun rimpianto, la madre è estremamente problematica, tanto che spesso lo stesso Antonio è costretto ad occuparsene. Le cose sembrano cambiare quando la squadra di calcio del Parma lo nota e lo invita ad un provino.
Raccontando i sogni e le speranze di un giovane, il lungometraggio di D’Emilio si allinea con la nuova ondata di pellicole di formazione che sta investendo il cinema tricolore nel corso degli ultimi anni. Rispetto ai predecessori veneziani e non, Un giorno all’improvviso non colpisce sicuramente per inventiva, ma ricorre ad alcune soluzioni narrative e rappresentative comunque molto interessanti.
Più dei precedenti, la storia si focalizza anzitutto su un singolo protagonista che, pur dialogando costantemente con altri personaggi, monopolizza interamente la scena. Proprio per questo, a sorprendere è il giovane Giampiero De Concilio che, al suo esordio sul grande schermo dopo marginali esperienze televisive e teatrali, propone un’interpretazione già estremamente matura ed equilibrata: il suo Antonio si delinea come un personaggio realmente a tutto tondo, capace di mutare i diversi stati d’animo e le conseguenti emozioni senza mai perdere la propria identità. Accanto a lui, si muove anche la brava Anna Foglietta che, nel ruolo minore della madre psicologicamente instabile, offre un ritratto veritiero della malattia mentale, senza sfociare mai nella parodia.
Da un punto di vista creativo, la regia di Ciro D’Emilio si presta ad una verosimiglianza linguistica e rappresentativa, votata naturalmente all’intrattenimento del pubblico. Al contrario di molte opere prime, D’Emilio non tenta di caricare il proprio lavoro di echi artistici e cinematografici, ma indaga in modo pulito e ordinato il micro-cosmo che desidera raccontare. Come un moderno cantore, il cineasta piega il proprio stile alle esigenze del racconto, seguendo con costanza Antonio nei suoi confronti con la madre, con gli amici e con la giovane guagliona che gli ha rubato il cuore.
Costretto a diventare adulto prima del previsto, Antonio non è solo il centro focale della narrazione, ma è anche il cuore pulsante della messa in scena che, partendo proprio dallo sguardo innocente del ragazzo, dipinge un affresco mai banale della campagna napoletana, scissa tra il grigio delle strade semi-urbane e il verde dei campi da calcio. Con coerenza ed equilibrio, il regista ha quindi nuovamente evidenziato l’importanza che il protagonista ricopre in quest’opera, riuscendo – a discapito però di qualsiasi rischio – ad intrattenere e convincere.