Ti mangio il cuore, il nuovo film di Pippo Mezzapesa, è in concorso a Orizzonti a Venezia. Il film è una decisa zampata d’autore nella carriera del regista pugliese che, dopo Il paese delle spose infelici e Il bene mio, affronta una storia di faide familiari, perpetrate nel tempo, nell’oscuro mondo della mafia del Gargano, la cosiddetta quarta mafia, raccontata nel libro omonimo di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, edito da Feltrinelli.
Mezzapesa gira un film materico, intriso di terra, fango, sangue, sudore, carnale sia nelle manifestazioni della morte che in quelle dell’amore, attraversato da uno spirito selvaggio che sembra annullare lo scorrere del tempo, il 1960 è uguale al 2014, che sarà uguale fra cent’anni. Un potente bianco e nero, la presenza seducente e mefistofelica di Elodie, femme fatale di un mondo primitivo e crudele, una squadra di attori affiatati: di questo e altro parliamo con Mezzapesa, poco prima della première del film.
Quando hai cominciato a pensare a Ti mangio il cuore?
Il libro mi è stato proposto dagli autori, quando era ancora in bozze, e leggendo questa analisi attentissima del fenomeno della mafia foggiana, la cosiddetta quarta mafia, ho ritrovato una storia alla quale mi ero appassionato molti anni prima, quando era emersa dalla cronaca la vicenda della prima pentita della mafia del Gargano, una donna che per la sua ricerca di amore, un amore bruciante, fa esplodere la faida assopita fra due famiglie. Eppure, questa sua scelta aiuta a decapitare questo stesso sistema mafioso.
Il Gargano non è la terra di cui sei originario.
Io sono di un’altra parte della Puglia che però comunque è vicina. Conosco il contesto di questo film, è una realtà quasi sconosciuta, su cui far luce perché è estremamente violenta e che si è accresciuta proprio a causa del suo essere poco nota. Raccontare questa ferita, quest’ombra nella mia terra, credo che possa servire a rimarginarla.
Il bianco e nero ti è servito a dare l’impressione che, nonostante un passaggio temporale fra il prologo e il resto del film, le dinamiche si ripropongano uguali, un eterno ritorno?
Il bianco e nero è stato scelto per raccontare i grandi contrasti di questa storia. C’è un contrasto anche nel titolo: “ti mangio il cuore” può essere promessa di morte ma anche folle dichiarazione d’amore. Questa ambivalenza è anche il contrasto della storia, che è cruda, dura, violenta, ma anche fatta di fragilità, di voglia di vivere, di sensibilità, di grazia. Per restituire queste dinamiche quindi ho pensato di utilizzare solo due colori: il bianco e il nero. In fondo il bianco e nero mi ha anche consentito una sorta di astrazione e, non ultimo, la possibilità di raccontare il fulcro della storia: l’ineluttabilità del male e la difficoltà di sradicarlo.
In un film dall’estetica così precisa il rapporto con il direttore della fotografia è cruciale.
Quando ho comunicato al direttore della fotografia, Michele D’Attanasio, l’esigenza di girare in bianco e nero, lui l’ha subito condivisa. È stato bello cominciare a vivere, a guardare in bianco e nero: le scelte dei colori, le consistenze dei materiali sono fatte tutte in funzione dei contrasti del bianco e nero, ci siamo abituati a vivere così.
Hai scelto molti attori che non sono pugliesi, questo ha comportato un grande lavoro sulla lingua.
Avevo a cuore che il dialetto fosse attendibile, e di conseguenza il lavoro sulla lingua è durato mesi, c’era un dialogue coach che ha seguito gli attori in preparazione e poi è stato presente sul set a controllare fino al minimo accento. Per me restituire l’idioma di quella terra, che è molto crudo, gutturale, era essenziale per il racconto.
Hai riunito Tommaso Ragno e Francesco Di Leva, che tornano insieme dopo Nostalgia di Mario Martone.
Sono due grandissimi attori, attori di struttura ma allo stesso tempo anche di grande istinto, capaci di mimesi, è stato un privilegio dirigerli.
Sei un regista che lascia spazio all’improvvisazione?
Credo che il set sia un momento di vita, di creazione, un viaggio che va vissuto tutti insieme. Ci deve essere una guida, certo, ma la guida deve anche farsi influenzare da tutte le energie che emergono sul set, che sono sia umani che paesaggistici. Ci si lascia influenzare dall’estro degli attori, da come il personaggio viene reinterpretato e rivisto dall’attore, e allo stesso tempo si deve essere disponibili a tutti i piccoli imprevisti che i luoghi in cui si va a girare ti presentano. Tutto questo arricchisce la storia.
Le location sono posti che già conoscevi?
Sono posti che conoscevo molto bene ma che ho imparato a conoscere ancora meglio, perché la prima cosa che faccio, prima ancora di fare scouting con la produzione, è visitare da solo o al massimo col direttore della fotografia i luoghi in cui si andrà a girare, per entrare nell’anima dei posti, capirne l’essenza e raccontarli con consapevolezza.
Come è avvenuta la scelta di Elodie, qui al suo esordio?
Un po’ come la faccenda legata al bianco e nero: un’intuizione iniziale, istintivamente. Serviva una personalità forte, che avesse una sensualità dirompente, violenta, ma allo stesso tempo sapesse comunicare verità, sensibilità, capacità di emozionare. Elodie era perfetta. Il percorso di ricerca del personaggio è stato incredibile, è stata una scelta molto coraggiosa sia da parte mia e della produzione che, soprattutto, da parte sua, perché non è semplice esordire al cinema con un personaggio così sfaccettato.
Il finale di Ti mangio il cuore apre a una speranza, a una remissione, però l’ultimissima inquadratura può significare che esiste qualche cosa di inestirpabile negli esseri umani. Sei d’accordo?
Ancora una volta: l’ineluttabilità del male. Il male è alienabile, sì, è una scelta di vita: la scelta di Marilena, il personaggio di Elodie, va nella direzione dello sradicamento del male, ma attenti, perché le radici sono difficili da estirpare.