Il secondo dei film italiani della Quinzaine des Réalisateurs, Re Granchio, è l’esordio al film di finzione di due giovani e talentuosi registi, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, che avevano conquistato pubblico e critica nel 2015 con Il solengo, film documentario che aveva trionfato a DocLisboa, che con l’escamotage del racconto popolare tramandato oralmente dai vecchi della comunità raccontava l’esistenza misteriosa di un uomo di Vejano, un piccolo centro nella Tuscia laziale, che per sessant’anni aveva vissuto lontano da tutto e da tutti, rintanato in una grotta.
Con Re Granchio, film presentato a Cannes, i due registi, entrambi approdati ad altri lidi nel corso della loro vita (Alessio in Argentina, Matteo a Berlino) tornano nello paese del solengo e elevano all’ennesima potenza l’ambizione narrativa e il potere evocativo delle storie del focolare.
Ritroviamo personaggi – anzi, persone: gli anziani che si riuniscono a tavola davanti a un bicchiere di vino, leitmotiv di tutto il film, non sono attori – che avevamo già visto nel documentario, però questa volta ci viene raccontata una storia accaduta alla fine del XIX secolo, la storia di un reietto, Luciano, che si oppone ai soprusi del principe del villaggio ed è amato teneramente da una giovane contadina, il cui matrimonio è assolutamente proibito dal padre padrone.
A causa di questa ribellione, Luciano viene messo all’indice, fino a subire addirittura un attentato, a essere dato per morto, ed è a questo punto che il film, perfettamente bipartito, prende la sua seconda strada, e si sposta nella Terra del Fuoco, in cui anche quella basilare forma di civilizzazione, per arcaica e feudale che fosse, del villaggio della Tuscia qui viene a mancare, c’è solo la montagna, la natura selvaggia dell’uomo e delle cose, dove è un granchio a guidare gli avventurieri.
La maturità registica di Rigo de Righi e Zoppis si manifesta soprattutto nella capacità di raccogliere influenze molteplici, metabolizzarle e piegarle a un linguaggio proprio. Come dovrebbe sempre essere, infatti.
La prima parte del film, quella che più porta alle estreme conseguenze il lavoro de Il solengo, sfocia in momenti che potrebbero far pensare al documentario antropologico, agli insuperati maestri italiani delle feste e della tradizione popolare portata al cinema De Seta e Di Gianni, ma Rigo de Righi e Zoppis, che già dispongono di una propria cifra stilistica per il racconto dal vero, travalicano la dimensione documentaristica e cristallizzano e sublimano le immagini della festa popolare in tableau vivants di chiara natura pittorica, debitrice sicuramente di un regista da loro amatissimo, e cioè Paradjanov.
Mentre nella seconda parte di Re Granchio, che sarebbe semplicistico bollare come western, nonostante una mano sicura nel gestire la tensione, il montaggio, il sonoro, il ritmo tipici del genere, le coordinate spazio-temporali vanno via via offuscandosi, confondendosi, fino a diventare irrilevanti, o nulle, e questo tipo di operazione visiva (e visionaria) è in comune con il Lisandro Alonso di Jauja, e non a caso troviamo il suo nome nei ringraziamenti.
Un’ultima sottolineatura meritano due scelte attoriali di Rigo de Righi e Zoppis: il protagonista Luciano è interpretato da Gabriele Silli, artista contemporaneo che pure sulla natura e sulla materia (proprio come in questo film) stabilisce il suo campo d’indagine, e poi il ruolo del principe che gode della geniale e ieratica performance di Enzo Cucchi, l’artista simbolo della Transavanguardia italiana.