Quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia ha compiuto la sua ottantesima edizione. All’interno di una grande kermesse come questa il cinema breve viene sempre considerato palestra, esercizio per giovani registi, o superficialmente una vetrina. A nostro parere rimane invece un vivaio d’idee libere per nuovi autori che raccontano storie mostrando le loro potenzialità con la singolarità dei loro cortometraggi. Un corto è un po’ come una barzelletta: semplice, diretta e con un solo scopo. Che nel caso del cinema non è la risata finale, anche se capita, ma un’emozione. Quindi un colpo di scena, un pugno nello stomaco, un dato della realtà, la riflessione su una scoperta, o una freddura. Un monito certe volte, o una risata appunto. Comunque un solo concetto su una sola emozione che concentra tutto il lavoro narrativo edificato in quella manciata di minuti intorno a un micro-mondo, la messa in scena. Insomma, una storia che ogni autore tira fuori dal buio del grande schermo per intingerci dentro la sensibilità di uno spettatore al fine emozionarlo.
Giunta alla sua edizione numero 38 la Settimana Internazionale della Critica, sezione collaterale della Mostra, oltre ai lungometraggi (7 film in concorso più 3 eventi speciali), abbiamo avuto 7 cortometraggi in concorso, più i 2 in apertura e in chiusura rispettivamente di Liliana Cavani e Francesco Piras. Tutti e 9 italiani. Mentre la giuria composta da Eddie Bertozzi, responsabile acquisizioni per la distribuzione Academy Two, il regista Matteo Tortone e la producer Nicoletta Romeo ha decretato i 3 vincitori ai quali siamo andati a dare uno sguardo (di altri due concorrenti, Tommaso Fragini e Federico Demattè, abbiamo parlato un articoli precedenti).
Nel documentario La linea del terminatore di Gabriele Biasi seguiamo la testimonianza di Fernanda Gonzales, un’immigrata Argentina che è fuggita da Buenos Aires fino all’Italia. Il regista ce ne lascia ascoltare la voce, un flusso di coscienza accompagnato da immagini dirompenti a sintetizzare il dramma e l’urgenza di questa donna. Oltre a immagini di repertorio, Biasi sceglie le partenze di razzi aerospaziali, così le esplosioni di quei reattori ben rappresentano la rottura traumatica, anche violenta di del viaggio come impresa immane, distacco dalla propria terra verso lo spazio come verso il futuro in un altro paese lontano. I sensi di colpa per aver lasciato indietro la sua famiglia bruciano l’anima della donna come quei motori in fiamme. Biasi utilizza immagini porose che sembrano in Super8 e 16mm, distorsioni psichedeliche per raccontarne in video i sentimenti, ma soprattutto colpisce la lampante metafora delle strumentazioni aerospaziali, un modo di raccontare l’immigrazione bagnato di Kubrick, perché un viaggio per trovare una nuova vita è sempre un’odissea. Con questa intuizione Biasi si è aggiudicato il Premio alla Migliore Regia – Stadion Video.
Ha i toni di una commedia brillante invece We Should All Be Futurist dell’autrice Angela Norelli (regia e sceneggiatura). Allegoria concettuale che giustappone immagini di film anni ’10 e ’20 a un vivace carteggio tra due donnine di casa. “Isterica” viene chiamata la donna che si affaccia fuori dai binari di un’educazione patriarcale. Così la storia del primo vibratore, sì il primo strumento di piacere erotico storicamente dedicato alle donne e al loro diritto al piacere, si lega a un linguaggio cifrato in sottili allusioni che irride con leggerezza il futurismo di Marinetti e il superomismo uomo-macchina in una chiave tutta proto-femminista. Parlare quasi in codice diventa un inno alla libertà senza tempo, libertà che passa in primis dall’intimo umano, femminile. Il mondo in un corpo, e il corpo nel mondo come avamposto di sopravvivenza dell’identità, come punto G di una dimensione d’indipendenza da conservare anche al costo di comunicare tramite codici cifrati contro mariti impantanati nei rigidi tecnicismi maschiocentrici del loro tempo. O semplicemente resilienza novecentesca della prima ora. Sta di fatto che questo corto audace e frizzante ha vinto il Premio al Miglior Contributo Tecnico – Fondazione Fare Cinema.
Il Premio al Migliore Cortometraggio – Frame by Frame della Settimana Internazionale della Critica è andato infine a uno shortfilm che guarda al passato di due alberi cresciuti nel bel mezzo della foresta amazzonica peruviana. Presupposti originali, misteriosi e apparentemente impossibili da realizzare come Las memorias perdidas de los árboles di Antonio La Camera costituiscono esattamente quelle sane tensioni creative tra autore, grande schermo e spettatore che sfidano il sentire e l’immaginare. Così in un continuo controcampo tra arbusti imponenti scopriremo il loro passato umano di fratellini. La loro lingua è un crepitio gutturale, quasi atavico, ma i sottotitoli ci offrono il linguaggio umano. Flashback di vite passate si risvegliano da memorie sopite, rimaste legate tra liane o sepolte dal fogliame. La dimensione natura si fonde in contrasto con un vero e proprio viaggio spirituale rendendo più viva che mai quella comunemente errata staticità che assegniamo al mondo vegetale. Il regista di questa produzione italo-spagnola tinteggiata di colori sfocati e lisergici tutto il suo film. Sfoca i ricordi umani ponendoci di fronte a soggettive di sensorialità quasi aliene. Attinge a diverse tecniche da videoarte, rielaborazioni sulla luce quasi pittoriche, astrattiste, miscelando effetti digitali in un decoupage che ci parla di rispetto per l’ambiente attraverso il destino di due bambini senza mai tralasciare grazia e magnificenza del mondo vegetale.