“Spira Mirabilis” è il primo film italiano presentato in concorso a Venezia 73 – gli altri sono Piuma di Roan Johnson e Questi giorni di Giuseppe Piccioni – sesto lavoro della coppia di milanesi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, un documentario sperimentale ed estremo che ha obbligato la frenetica Mostra del Cinema a fermarsi. Fra le star da red carpet, le feste, i convegni, e le interminabili code sotto al sole, solo l’immortalità poteva fermare il tempo serrato del Lido.
Non tutti però hanno accettato la sfida: sospendere qualsiasi altra attività per 121 minuti non è una cosa da poco, in un momento dove il cinema più che mai si trova costretto a utilizzare qualsiasi mezzo e trucco per riportare le persone in sala. Spira Mirabilis è un film che addirittura le persone dalla sala le ha fatte scappare, ma nel fuggi-fuggi sia di pubblico che di stampa, chi ha avuto l’intuizione e la curiosità di restare ha applaudito per sei minuti consecutivi – che non sono affatto pochi.
Il film è, prima di tutto, un’operazione di coraggio, da ogni punto di vista: dalla realizzazione, alla produzione, fino alla distribuzione – in sala dal 22 settembre in 20 copie con I Wonder Pictures – passando per la collocazione in concorso a Venezia, cosa che ha meravigliato un po’ tutti. Ma come s’intuisce anche dal titolo, è proprio di meraviglia che il film parla, la meraviglia di fronte alla potenza che l’uomo sperimenta quando accetta e soprattutto supera i propri limiti.
Spira Mirabilis è un affresco astratto, ermetico, estremo perché esageratamente imperscrutabile, “una sinfonia visiva, un inno alla parte migliore degli uomini, un omaggio alla ricerca e alla tensione verso l’immortalità”: attraverso cinque storie ambientate nei diversi angoli del mondo che richiamano gli elementi naturali, si ha l’ambizione di mettere in scena l’immortalità. C’è la terra delle statue del Duomo di Milano sottoposte a un continuo restauro; l’aria degli affascinanti strumenti musicali creati da una coppia svizzera con una pazienza e una dedizione che commuove; il fuoco di una tribù di nativi americani lakota che lotta ogni giorno per la resistenza; l’etere della voce di Marina Vlady che narra l’Immortale di Borges; e infine, ed è la parte più riuscita, c’è l’acqua, nella storia di un bizzarro e visionario scienziato che dedica le sue giornate allo studio di una “medusetta” immortale, che si rigenera all’infinito in un magnetico e incantevole processo di rinascita.
I due autori non sono interessati ai grandi numeri, questo è evidente, sono consapevoli, in modo forse un po’ presuntuoso, che la loro opera sia per pochi “eletti”, ma la sfida che lanciano non è rivolta solo al pubblico, ma all’intero sistema cinematografico. Qui non ci sono star, non c’è un pitch forte, niente dialoghi ben fatti. C’è però qualcosa di più profondo che si percepisce nel silenzio, nei minuti di osservazione della minuscola medusa che si trasfigura, nella musica terapeutica di un tamburo in metallo, in due ore in cui viene richiesto uno sforzo maggiore allo spettatore, che in modo consapevole e attento deve scegliere di dedicare il suo tempo a un’opera inaccessibile a un occhio distratto e di passaggio.
Spira Mirabilis ci ricorda che l’uomo, in qualunque parte del mondo si trovi, nutre il profondo desiderio di lasciare la traccia del suo passaggio e di affrontare con dignità e originalità il suo più grande limite, la morte.