“Le ultime cose” è il film con il quale la documentarista e artista visuale Irene Dionisio (vedi Fabrique n. 15) esordisce nel lungometraggio di finzione, unica italiana nel concorso della 31a Settimana Internazionale della Critica a Venezia. Il titolo ha un che di apocalittico e cupo anche se profuma d’intimità quotidiana.
Tre storie fanno da telaio sul quale intrecciare i percorsi di una piccola galleria di personaggi, al centro un luogo emblematico, tutto intorno la Torino patria d’origine della regista trentenne: un giovane, ingenuo e onesto, intraprende il suo nuovo lavoro presso un banco dei pegni; dall’altra parte dello sportello il giovane incontra una trans pronta a impegnare una pelliccia ricevuta in regalo; fuori, a pochi metri, un vecchio pensionato, invece che al meritato riposo, si trova costretto a dedicare le sue giornate – e i suoi affanni – ai traffici del cognato, ricettatore senza scrupoli.
Come in un labirinto di corridoi narrativi, così i fili che segnano il percorso dei molti personaggi all’interno del film sembrano attraversare da tutte le parti il luogo simbolo, il banco dei pegni, microcosmo che rappresenta una città e una nazione esplorandone a fondo una zona periferica. Nella forma del film corale Irene Dionisio sembra trovare la via al racconto critico dell’Italia d’oggi, scegliendo come linea d’orizzonte il denaro – non il valore ma il prezzo – in una dimensione in cui l’esistenza è sottoposta e costretta sempre alla verifica dell’economia di mercato.
Non tutto funziona, e come spesso succede nelle prime prove d’autori esordienti, qualcosa manca mentre qualcos’altro è di troppo: la musica non coglie sempre il giusto registro, alcuni dei trucchi per oliare le giunture narrative non sono sempre brillanti (come significano e a cosa servono le immagini delle telecamere a circuito chiuso, usate quasi come ritornello visivo negli snodi del racconto?), però Irene Dionisio conferma la prontezza di sguardo già dimostrata nei documentari, intagliando nelle singole scene miniature ricche di dettagli, lavorando all’intreccio in modo che il singolo frammento non prevalga sul disegno complessivo, componendo infine un affresco che non rinuncia all’assertività del cinema civile.
La giovane piemontese sembra avventurarsi nella lunga durata del cinema a soggetto per essere più liberamente e più decisamente al comando della narrazione, prima e ultima responsabile di un discorso critico politicamente cristallino; la lezione del documentario non è persa e garantisce anzi il rigore morale necessario a evitare tanto l’intransigente manicheismo, quanto il pietistico sentimentalismo. Gli attori professionisti e gli interpreti “presi dalla strada” riescono a convivere – pur con qualche stonatura – in un processo al presente nel quale tutti sono imputati, ma non ci sono né innocenti né condannati. Il finale arriva come una sincope, in controtempo, in un improvviso sussulto: l’unica rivoluzione è quella che ognuno lancia contro se stesso, per questo il fallimento può ripetersi ogni giorno.