Da “Colpa di comunismo” a “I racconti dell’orso”, passando per la poesia di “Antonia”, il made in Italy di “Borsalino City” e l’attualità di “Dustur”, il festival dà spazio alla sperimentazione e a idee diverse di cinema.
Il Torino Film Festival ha dato il via alla sua trentatreesima edizione sotto lo sguardo attento di Orson Welles, omaggiato con una retrospettiva, e la guida salda di Emanuela Martini, affiancata quest’anno dal guest director Julien Temple. Ad attrarre l’attenzione, però, sono soprattutto i nuovi talenti che nella manifestazione torinese hanno trovato da sempre un palcoscenico accogliente per mettersi alla prova. Così, nel Concorso Internazionale Torino 33, dove confluiscono opere prime, seconde e terze, due film italiani fanno bella mostra di sé.
Si tratta di Colpa di comunismo, firmato da Elisabetta Sgarbi, in cui vengono raccontate le difficoltà di un gruppo di badanti in Italia, e I racconti dell’orso, un progetto innovativo, realizzato da Olmo Amato e Samuele Sestieri grazie al crowfunding. I toni sono quelli di una fiaba che si svolge ai confini del mondo: i protagonisti, un omino rosso e un monaco meccanico che si inseguono in paesaggi desertici dove degli uomini rimangono solo le tracce. La sfida di questo esordio, secondo i due registi, è stata quella di girare a quattro mani, nella convinzione che filmare fosse, prima di tutto, un gioco bellissimo da portare fino alla fine.
Primo lungometraggio anche per Ferdinando Cito Filomarino che, con i toni raffinati e contenuti di Antonia, prova a far rivivere atmosfere viscontiane. Il film, presentato nella sezione Festa Mobile, si concentra sulla figura di Antonia Pozzi, giovane poetessa milanese morta nel 1938 e diventata un punto di riferimento culturale del Novecento solo dopo la sua scomparsa. Allo stile poetico di Filomarino risponde Enrica Viola con Borsalino City, dedicato a un accessorio diventato sinonimo di eleganza maschile e oggetto di desiderio anche per le star di Hollywood. Così, partendo da una lettera scritta niente meno che da Robert De Niro, in cui l’attore esprime il desiderio di indossare lo stesso cappello di Mastroianni, si ricostruisce il fascino di un’epoca e di un’Italia tanto provinciale quanto creativa.
E, per finire, anche la sezione dedicata al documentario dice la sua con Dustur di Marco Santarelli. Dopo il suo primo lungometraggio Milleunanotte e il suo ultimo documentario Lettera al Presidente, il regista torna a indagare su un elemento cardine della nostra vita civile e politica. In arabo, infatti, dustur significa ‘Costituzione’. E la Costituzione italiana è quella che un gruppo di detenuti musulmani del carcere Dozza di Bologna inizia a conoscere e approfondire in uno speciale corso scolastico. Un percorso che li porterà a scrivere un dustur ideale, fatto di parole personali e universali, in un confronto aperto e uno scambio tra culture e modi di sentire a volte differenti, accomunati da necessità vitali.