Prima considerazione: gli italiani tornano a fare figli. Da giovani, da giovanissimi, anzi da minorenni. Se la realtà ci parla di un paese demograficamente in panne, con la morsa della precarietà a soffocare ogni desiderio (incluso quello di riprodursi), il cinema italiano risponde raccontandoci tutta un’altra storia. E così, dopo gli adolescenti incinti di Piuma, ecco che il festival di Torino presenta in questi giorni SLAM – Tutto per una ragazza di Andrea Molaioli, storia di due sedicenni allegramente alle prese con una gravidanza inaspettata. Anche in questo caso, come nel film di Roan Johnson, la direzione imboccata dai ragazzi è a un senso solo: il bambino si terrà, punto e basta, contro la volontà della famiglia e il parere degli amici. E anche in questo caso, come per Piuma, la chiave scelta è quella della commedia, con un ricorso puntuale al registro del surreale (là erano sequenze oniriche, qui veri e propri sogni, anzi incubi del protagonista). In entrambi i casi, la scelta dei nostri autori è in controtendenza con la realtà: che sia indice di un fantozziano scollamento del cinema dal paese reale, o di un ribelle e legittimo slancio di fantasia autoriale, è forse troppo presto per dirlo. Ma la fertility wave imboccata di recente è un segnale da ascoltare. Un allarme, probabilmente.
Seconda considerazione: nel nostro cinema le donne, se fanno un figlio, smettono di ridere. Ammesso che l’abbiano mai fatto prima. Succede in Piuma, succede nel film di Molaioli (dove pure la brava Jasmine Trinca, nel ruolo della giovanissima madre del protagonista, ha spazio e corpo in scena), e la recidiva diventa irritante: il motore comico in entrambi i film è affidato interamente ai maschi, immaturi e sognatori, terrorizzati dalla responsabilità, incerti sulla direzione da far imboccare alla propria vita. Umani, perciò simpatici, capaci di catturare le simpatie dello spettatore. Le donne no. Granitiche, bidimensionali, dritte come panzer alla meta: riprodursi, diventare o essere mamme, come (unica) missione di vita. Schiacciate nel ruolo del contraltare drammatico alla vitale voglia di vivere del maschio, le donne sono la parte più debole di questi due film: sono lo scalino su cui è inciampato Piuma un passo prima di atterrare in vetta, sono il muro su cui si schianta SLAM prima ancora del decollo.
Terza considerazione: SLAM, a differenza di Piuma, non è un soggetto originale. È tratto dall’omonimo romanzo di Nick Hornby, adattato per l’occasione alla realtà di Roma, e dalla pagina scritta “ruba” giustamente personaggi, battute, situazioni. Ma dimentica, ed è forse il difetto più grave del film, di sfruttarne – visivamente, narrativamente – una parte importante. La cultura dello skate, di cui il protagonista Samuele è appassionato, resta una cornice superflua, scollata dalla trama, un dettaglio di colore che non aggiunge nulla alla vicenda. Samuele è uno skater, il suo amico Lepre anche, ma di quel mondo (che poi è un universo, con le sue regole e i suoi riti) nel film non resta nulla più di qualche scena su un half-pipe. Peccato. È come aver messo una pistola nel film e non averla fatta sparare. Non si fa. Soprattutto se la voce fuori campo è quella di Tony Hawk.
Al netto delle considerazioni, SLAM delude nel contesto di un festival che ci aveva abituati meglio. Un film commerciale che non fa il suo dovere, con musiche piacione per un target over trenta (Eels, Cake, Pixies), e una storia di poche ambizioni, scarsa cura, tirata via come a liberarsene in fretta. Come dice la filosofia dello skate: l’importante non è riuscire a fare il trick, ma provarci. Aspettiamo in pista Molaioli, in attesa che gli riesca di nuovo un forward flip.