Italia, paese di precari. Chiudi gli occhi. Fai passare cinque, sei anni. Riaprili. L’Italia è sempre un paese di precari. Talmente tanto che il precario ipertitolato-pronto-a-tutto è diventato una specie di nuovo archetipo della moderna commedia italiana.
Da Tutta la vita davanti (2008) a Fuga dal call center (2009), passando per Generazione 1000 euro (2009), Smetto quando voglio (2014) e The Workers (2012), da qualche anno è tutto un cinefiorire di vulcanologi, laureati con lode, neurobiologi, matematici e freelance impiegati nei sottoscala di luride cucine (spesso cinesi, chissà perché) o semplicemente senza lavoro.
Ultimi in ordine di tempo – e già questo, da parte loro, è piuttosto strano – anche i The Jackal portano al cinema, e prima ancora alla Festa di Roma, nella sezione Alice nella Città, la loro lettura del precariato italiano con Addio fottuti musi verdi, storia di un grafico pubblicitario (Ciro Priello) che, stufo di non trovare lavoro in Italia, manda il suo curriculum nello spazio. E viene assunto. Dagli alieni.
Una premessa gustosa che si innesta però su un tema stanco, quasi istituzionalizzato. E perciò privo di carica eversiva. Intendiamoci: funzionano i siparietti con gli attori di Gomorra (Fortunato Cerlino e Salvatore Esposito), funziona la guest star Gigi D’Alessio, funzionano le trovate narrative – il curriculum nello spazio, il contratto a tempo indeterminato come il Graal di una generazione, il popolo alieno come metafora non troppo velata della Germania di Merkel – ma manca l’affondo satirico, la sciabolata intelligente, manca lo spirito dissacrante, manca insomma quella capacità dei The Jackal, le teste matte dietro a Lost in Google, di smontare comicamente il reale e di farlo sempre un passo avanti agli altri. Il mestiere, insomma, c’è: ma dov’è finita l’inventiva?
Con Addio fottuti musi verdi si assiste con un pizzico di delusione al processo di normalizzazione della libertà creativa della factory napoletana – evidente soprattutto nella confezione del pacchetto: voce fuori campo, sottile plot di amicizia/responsabilità, “chiusura dei rubinetti” finale – la cui responsabilità potrebbe risiedere nell’importante presenza di Cattleya in produzione. Un intervento ingombrante che, se ha levato qualcosa in fase di scrittura, ha tuttavia restituito altrettanto in realizzazione e post produzione, consegnando agli spettatori una fantascienza made in Italy davvero credibile. Ed è questo probabilmente l’aspetto più riuscito del film: l’aver provato con successo ad alzare l’asticella dell’ambizione di genere, tentando una strada – quella della sci-fi – ritenuta impraticabile localmente a livello produttivo.
Il bilancio della prima avventura cinematografica dei The Jackal si chiude quindi in sufficienza, con un prodotto molto al di sotto delle aspettative e leggero come un cinepanettone per millennials. Buono per ridere qui e ora, a una condizione: quella di non pensare che, da dieci anni a questa parte, l’unico traguardo raggiunto in commedia è stato quello di trasformare i precari da personaggi a macchiette.