New York mi ha fatto amare il cinema, e il cinema mi ha fatto amare New York: la città che più ha contribuito a formare il mio immaginario cinematografico è diventata, rendendomi felicissimo, il luogo che ha ospitato l’anteprima mondiale del mio primo lungometraggio, Senza distanza.
Il film racconta di un bed & breakfast in cui si pratica un corso preparatorio per relazioni a distanza. Due coppie (Marco Cassini/Lucrezia Guidone, Giovanni Anzaldo/Giulia Rupi) formate da individui che non riescono ad accettare l’idea di separarsi e vivere da soli in punti distanti nel mondo, si ritrovano in questo strano luogo dove devono mettersi alla prova, proprio perché tra di loro legati da una fortissima dipendenza affettiva, che è quanto di meno sano ci sia per una relazione. La situazione, poi, si complicherà ulteriormente a causa dei gestori del b&b (Elena Arvigo e Paolo Perinelli).
Per ora non svelo altro, però voglio precisare che il titolo inglese che ho dato al film è Time Zone Inn, cioè “la locanda del fuso orario”, ed è in un certo senso ironico che la sua prima proiezione assoluta sia avvenuta proprio in un luogo in cui si vive sei ore in anticipo rispetto al Paese dove il film è stato concepito, l’Italia. Senza distanza è stato infatti proiettato durante la settima edizione del New York City Independent Film Festival, che si tiene nel cuore di Manhattan, a due passi da Broadway.
Ho vissuto intensamente l’esperienza del festival, l’atmosfera di scambio culturale che si respirava, la partecipazione attiva del pubblico e degli addetti ai lavori, arrivati da tutto il mondo. Si è ricreata, all’interno di quell’ambiente, la stessa situazione metaforica del mio film, in cui ogni camera del b&b rappresenta una stanza del mondo.
Autori di ogni nazionalità hanno avuto modo di dialogare e scambiare tra di loro pareri e modi di pensare. Il festival è riuscito a creare un senso di comunità tra i filmmaker, e questo è importantissimo, perché il pericolo più grande per un autore indipendente, nell’attuale mondo artistico, è quello di restare isolato, di convincersi di essere l’unico folle ad aver rischiato e a essere estraneo rispetto a un mondo produttivo più grande, più consueto o più giusto. Questa è un’idea profondamente sbagliata. Non ha senso, e credo che non l’abbia mai avuto, che il cinema indipendente debba essere ghettizzato, in quanto sta diventando esso stesso la cinematografia “ufficiale” del futuro. Le nuove storie sono tutte qui, in questo mondo parallelo, dei festival di cinema – indipendente e non – di tutto il mondo ed è assurdo che scorrano di fianco all’universo produttivo dei grandi budget, anzi, bisognerebbe mescolarle insieme alle realtà più solide delle varie major. Dico questo perché sono convinto che l’attenzione durante la visione di un film dovrebbe essere indirizzata non verso la sua impalcatura produttiva ma nei confronti della storia che è narrata. Ci interessa? Ci racconta qualcosa sulla vita? È ben girata?
Ci sono gemme nascoste in tutto il mondo, piccoli gioielli indipendenti sparsi per il globo nei circuiti festivalieri. L’occhio dei distributori dovrebbe rivolgersi con più attenzione a queste realtà e scoprirebbe delle storie spesso e volentieri più sincere e originali di quelle che provengono dell’industria cinematografica dominante. E il dato di fatto più inconfutabile è che ormai un film girato con 20mila euro, uno girato con 200 e uno girato con 2 milioni non sono più distinguibili – se ben girati, ovviamente – né dal punto di vista tecnico né da quello delle performance attoriali. L’evolversi dell’ormai nota tecnologia digitale e la spontanea passione dei cineasti indipendenti fanno sì che si creino dei prodotti di altissima qualità.
Ho assistito personalmente, durante il festival, alla prova effettiva di quello che ho appena detto. Ho visto dei film eccellenti, spesso scritti, diretti e prodotti, come nel mio caso dagli stessi registi, che ho avuto la grande fortuna di conoscere. Voglio ricordare tra i tanti, l’emozionante documentario Waiting di Cristian Piazza (regista italiano che da sedici anni vive nella Grande Mela), storia di tre italiani a New York che lottano per la loro felicità. O il cortometraggio La Tumba di Maru Morón Iglesias, regista venezuelana che ha raccontato co
n struggente sincerità le violenze nelle prigioni del suo Paese. E voglio ricordare anche l’appassionante mediometraggio documentario Antonio, lindo Antonio di Ana Maria Gomes, racconto della ricerca di un uomo, emigrato in Brasile, che da cinquant’anni non torna più nella sua terra natale, il Portogallo.
Guardando questi film mi sono emozionato e non ho pensato, applicando un’etichetta, “questi sono prodotti indipendenti”. No. Ho pensato che fossero dei buoni film, punto. Ed è lo stesso pensiero che mi è stato ri
volto da più persone tra il pubblico dopo che Senza distanza è stato proiettato, persone che hanno espresso amore per l’opera e curiosità riguardo alle tematiche affrontate, sorprendendosi, a posteriori, del fatto che si trattasse di un’opera prima.
Quando sono uscito dalla sala, dopo la proiezione, mi sono trovato tra i grattacieli di Midtown, a pochi metri dai più importanti teatri del mondo, e ho riflettuto su quanto il cinema ancora una volta si fosse dimostrato universale, nel riuscire a parlare la nostra lingua e al contempo le altre lì presenti, volando oltre l’oceano Atlantico. E poi ho rivolto un ultimo pensiero al mio Paese, l’Italia, sempre un po’ sorniona e distratta, a volte cinematograficamente tendente ad arrotolarsi su se stessa. E ho immaginato un giorno in cui i vari fusi orari del cinema possano incontrarsi tutti insieme, senza pregiudizi produttivi, accomunati solo dall’immortale passione per il racconto.