“Il Bambino di Vetro” fra segreti e bugie

Federico Cruciani, dopo quasi otto anni di attesa, riesce a portare sul grande schermo il suo primo lungometraggio, presentato in concorso nella sezione Alice nella città. 

Si dice che la pazienza sia la virtù dei forti. Ma quanto bisogna essere pazienti e virtuosi per fare il proprio debutto alla regia nel panorama del cinema italiano? Federico Cruciani ha dovuto attendere quasi otto anni per vedere Il bambino di vetro sul grande schermo. Un’attesa, forse, ricompensata dall’essere l’unico italiano nel concorso di Alice nella città, e annunciata dall’amico e collega Crialese, che continua ad avere memoria delle difficoltà produttive affrontate con Respiro. Nonostante intoppi, silenzi e budget limitato, però, il film è riuscito ad attrarre l’attenzione del pubblico più giovane presente alla Festa di Roma, catapultato all’interno di una vicenda familiare in cui sembra non accadere nulla ma che, in verità, svela a poco a poco diverse realtà. Ad accompagnare lo spettatore in questo viaggio intimo nel cuore di una Palermo fortemente popolare, è il piccolo Vincenzo Ragusa che, con Paolo Briguglia nei panni inediti di un padre schiacciato dalla vita, definisce le similitudini e le differenze della famiglia naturale e criminale.

Il tutto compone un film dal cuore drammatico e dalla forma essenziale, di cui abbiamo parlato con il regista.

I silenzi e l’apparente assenza di azione sono elementi che caratterizzano fortemente il film. Quali sono le difficoltà affrontate nello scrivere una sceneggiatura così essenziale eppure ricca di significati intimi e personali?

Io ho avuto la fortuna e la sfortuna di lavorare su questo soggetto per moltissimo tempo. In totale abbiamo scritto venti stesure di sceneggiatura. Ho realizzato il primo soggetto nel 2008, da quel momento, però, ho atteso fino al 2013 prima di poter iniziare a girare. Aspettare così tanto è sempre sbagliato e può non far bene al progetto. Fortunatamente la storia ha un carattere universale, quindi mi è rimasta addosso con la voglia di raccontarla. Per quanto riguarda la scrittura, almeno la parte tecnica, non è stato un lavoro semplice. Io vengo dal teatro dove la scrittura, in molti casi, è un corpo vivo e in trasformazione. Il cinema, invece, ha i suoi tempi e ti obbliga a chiudere. Così alcuni dubbi li ho risolti direttamente sul set. La mia preoccupazione era che il film fosse troppo oscuro. La cosa più difficile è stato mantenersi in bilico tra il mistero, cui non potevo rinunciare, e la necessità di offrire un aiuto allo spettatore per entrare in una storia dove niente è come sembra. Per questo, ogni tassello utilizzato è fondamentale e nulla di quanto inserito è inutile.

Il mondo ambiguo degli adulti, dove la mafia sembra sovrapporsi alla vita quotidiana di una famiglia umile, è raccontata attraverso lo sguardo di un bambino. A lui viene affidato un compito importante, ossia quello di osservare ed elaborare. Questa scelta come caratterizza il film?

Effettivamente Vincenzo Ragusa ha il compito di guidare lo spettatore che, a sua volta, dovrebbe guardare con i propri occhi e cercare di vivere le stesse esperienze del ragazzo. Inoltre lavorare con i bambini ti permette di inserire in un’atmosfera quasi onirica anche la realtà più cruda, senza perdere di realismo.

Un elemento essenziale è l’impiego di brani dell’opera lirica che, pur senza diventare protagonisti assoluti, pongono l’accento sul cuore drammatico di alcuni momenti. Da cosa nasce questa scelta, in modo particolare dell’Attila di Giuseppe Verdi?

Era un rischio. Quando usi questo tipo di musica corri sempre il rischio di sembrare troppo intellettualistico. Per questo, solitamente, si cerca di andare su una scelta più minimalista. La musica lirica, che io amo e con cui ho già lavorato, ha un’anima popolare. Questo vuol dire che non ha bisogno di conoscenza, ma di cuore. Ed è stato proprio questo elemento a convincermi fin dall’inizio. Difficile, invece, è stato trovare il pezzo adatto. Con l’Attila di Verdi ci siamo incontrati casualmente durante uno spettacolo a Palermo, dove non volevo nemmeno andare. Oltre a questo, però, il desiderio di usare delle arie operistiche proviene anche da suggestioni cinematografiche personali come il cinema di Cassavetes, uno dei miei registi preferiti. Per il resto, detesto la musica di sottofondo o quella utilizzata per aiutare una scena. Se hai bisogno di questo trucco vuol dire che quel momento non è forte abbastanza e non sta funzionando.

La vicenda è ambientata nel cuore popolare di Palermo in cui si parla un siciliano molto stretto. Come avete lavorato sul linguaggio?

Abbiamo discusso molto su che tipo di linguaggio usare, italiano, mezzo italiano o siciliano. A un certo punto, però, ho fatto la scelta più estrema e inevitabile. Per alcuni anni ho vissuto nel centro storico di Palermo e sono stato a contatto con questo strato popolare. Ho ascoltato il loro linguaggio ed ho cercato di riproporlo fedelmente. Inizialmente ero dubbioso sulla scelta di Paolo Briguglia. Non per le sue qualità di attore ma per una formazione che, come la mia, è di stampo borghese. Per questo motivo il suo calarsi nel personaggio ha richiesto un lavoro intenso, sia per scoprire il carattere che per impadronirsi del suo linguaggio.

Come hai già accennato, hai una formazione e teatrale. In che modo questa esperienza ti ha aiutato a mettere in scena una vicenda intima con misura e forte senso dello spazio?

Il teatro mi ha insegnato a lavorare con pochi mezzi traendone il massimo. Da qui arriva l’essenzialità del film, che ha richiesto un grande sforzo. Mi hanno rimproverato di aver utilizzato pochi dialoghi, ma la mia intenzione era di esprimere le cose solo quando fossero state veramente importanti per la vicenda. Si è trattato di una scelta faticosa, visto che in sceneggiatura siamo andati a levare. Però, se si riesce a raccontare qualche cosa senza dirla materialmente, l’effetto diventa molto più forte.