“Niente vittimismo. Qui c’è la vita e la vita non è mai vittima”. Queste sono state le prime e fondamentali indicazioni che Daniele Vicari ha dato al cast formato da Isabella Ragonese, Francesco Montanari ed Eva Grieco nel momento in cui hanno cominciato a camminare sui passi di Eli, del marito disoccupato e della migliore amica di sempre, capace di cambiare completamente vita nel tentativo di capire se stessa.
Le loro non sono delle esistenze dalla rima facile, come quella composta dal titolo Sole Cuore Amore. Nonostante questo, però, ognuno sembra procedere con la grazia e la leggerezza di chi, per arte o per dovere, ha imparato a camminare in bilico su un filo facendo roteare in aria le mazze da giocoliere senza mostrare la benché minima fatica.
La più leggiadra di tutte, però, è proprio Eli che compie la sua quotidiana attraversata da Nettuno verso Roma per lavorare e sostenere la famiglia. Il suo viaggio giornaliero inizia alle quattro e mezza della mattina per prendere il primo autobus verso la fermata Laurentina della metro. Da qui, poi, continua a spostarsi attraverso non luoghi, mischiandosi ad altri, fino a raggiungere la Tuscolana per prendere finalmente il suo posto da protagonista. Il palcoscenico, però, è posto dietro il bancone di un bar dove, senza rimostranze o atteggiamenti accusatori, semplicemente vive e sorride sottopagata sette giorni su sette.
Ecco, dunque, che con quel suo inconfondibile stile asciutto e privo di orpelli visivi e narrativi, Daniele Vicari s’immerge nella quotidianità provando a raccontare il senso profondo che si cela dietro il ripetersi costante di gesti semplici e facilmente riconoscibili. Non lasciamoci ingannare, però, nonostante possa sembrare a prima vista che nel film non accada molto, in realtà la ripetizione della narrazione lavora proprio a favore della drammaticità, cui si aggiunge una giusta quantità di oppressione nel momento in cui ci si rende conto che la vita di Eli è anche la nostra. Ovvero di chi procede sentendosi continuamente sotto ricatto senza potersi permettere il lusso di allentare, anche solo per poco.
In questo senso, dunque, il film di Vicari ha un’anima politica che, partendo proprio da una materia poco trattata in questo momento dal cinema, come la quotidianità della gente comune, dà voce a quegli invisibili che rappresentano una maggioranza mai considerata. Ovviamente rispetto a Diaz ci troviamo di fronte a uno stile diverso che, utilizzando una sorta di realismo ingentilito dalla leggiadria di Eli, dimostra con una poetica inaspettata che non c’è bisogno del caso in prima pagina per fare della critica sociale e raccontare se stessi attraverso il cuore vitale di chi ci somiglia. Peccato, però, che nel così detto mondo moderno tener duro spesso vuol dire dover morire.