Un under 40 alla direzione di un festival di cinema: è successo a Ischia Film Festival (24 giugno – 1 luglio), con l’ingresso del 39enne Boris Sollazzo alla guida della manifestazione, in tandem con il precedente direttore e fondatore Michelangelo Messina. Un caso interessante di avvicendamento generazionale – processo virtuoso già collaudato in Campania dal Salerno Film Festival e dal Napoli Film Festival – che porta linfa nuova a un evento dall’importante ricaduta culturale sul territorio, che attribuirà quest’anno il premio IQOS alla carriera a John Turturro e ospiterà numerosi artisti nazionali (tra gli altri: Claudia Cardinale, Alessandro Borghi, Isabella Ragonese, Daniele Vicari, Toni D’Angelo, Maccio Capatonda, Walter Veltroni, Jasmine Trinca, Sergio Castellitto). Fabrique ha incontrato Boris Sollazzo, giornalista, critico e già firma brillante del giornale, per capire che rotta prenderà Ischia Film Festival – e come ci si senta a passare, prima di aver compiuto 40 anni, dalla coperta al timone della nave.
Come sei arrivato alla direzione di Ischia Film Festival?
È una manifestazione con la quale ho a che fare da sette anni. Ho iniziato presentando la serata finale, era saltata la persona che avrebbe dovuto condurla e lo chiesero a me. Accettai subito, perché fin dalla prima edizione ho sempre amato la passione con cui veniva portato avanti il festival: avevano pochissimi finanziamenti e si impegnavano in prima persona pur di portare grandi nomi e film di valore. Nei miei confronti hanno avuto un atteggiamento completamente meritocratico. Ogni anno facevo qualcosa in più per loro, ogni volta mi lasciavano un po’ di spazio in più. E alla fine è arrivata questa proposta.
Perché la co-direzione con Michelangelo Messina?
Il festival nasce quando Messina aveva quarant’anni. Ed esattamente quindici anni dopo, Messina ha fatto qualcosa che in Italia non fa nessuno: ha preso la propria creatura, quella che si è cresciuto da solo e l’ha messa in mano a qualcuno che sì l’ha amata, ma non è nemmeno tra i fondatori. Mi ha invitato a pranzo a Ischia a gennaio, a pochi giorni dalla fine della mia esperienza con Giornalettismo, e mi ha proposto la direzione del festival. Mi ha fatto un lungo discorso sull’importanza del passaggio dal vecchio al nuovo, sul ricambio generazionale: era disposto a lasciarmi al vertice da solo, mettendosi comunque a disposizione. Per me però non aveva alcun senso che lui smettesse di essere il direttore del festival. Se Ischia Film Festival è quello che è oggi, lo si deve a lui e a sua moglie Enny Mazzella, presidente dell’associazione che organizza la rassegna. E poi io sono convinto di una cosa: il segreto del ricambio generazionale non consiste nel succedersi, ma nel collaborare insieme.
Non bisognerebbe ucciderli, i padri?
Secondo me è un errore, questo insistere sessantottinamente sul fatto che si debba uccidere i padri. Per me l’importante è non smettere mai di picchiarsi, con i padri. Ucciderli significa negare un’esperienza, sovrapporvi la propria. E trasformarsi automaticamente in padre, in vecchio. E poi Michelangelo è un fratello maggiore: in un paese in cui non mollano nulla a 80 anni, lui pensa al ricambio generazionale a poco più di 50.
Quali sono le caratteristiche di un buon direttore di festival?
È un lavoro che ho scoperto adesso, molto diverso da come lo immaginavo. Il direttore di festival è una specie di sindaco: ha la responsabilità di tutto ciò che accade, ma non ha le competenze necessarie per fare ogni cosa. Deve essere abbastanza umile da capire a chi delegare quel che non può o non sa fare e abbastanza presuntuoso per mettere bocca su tutto. In pratica o ti senti dio, o ti senti un cretino – di solito a seconda di come vanno le telefonate che fai per invitare film e ospiti. Bisogna essere dotati di buonsenso, saper riconoscere l’identità culturale e territoriale del festival e capire che ogni cambiamento che si vuole apportare funziona solo se risponde a quella determinata logica. Serve coraggio, serve una capacità sovrumana di lavoro sul breve e medio termine, e infine serve non aver paura di prendere il buono che si è visto altrove. Ho apprezzato tanto i festival di Locarno e San Sebastian e non mi vergogno a dire che nel mio lavoro c’è una parte di quelle esperienze. Ho lavorato con Giorgio Gosetti alle Giornate degli Autori a Venezia e con Felice Laudadio a Taormina e alla Casa del Cinema di Roma: pesa anche il loro lavoro, in quel che faccio.
Qual è il tuo contributo a questa edizione di cui sei più orgoglioso?
La presunzione di andare oltre al classico prodotto da festival. Fermo restando che questa edizione è il primo percorso di un’idea che si svilupperà pienamente solo nel tempo, ho cercato di superare i getti e le definizioni in cui si tende a rinchiudere il cinema. In questo senso per me è importante la sezione Under the Sky, che si svolgerà prevalentemente nella sala più “alta” che abbiamo, in collaborazione con Sky. Mostreremo due serie, The night of e 1993, ma non ci limiteremo alle prime due puntate: le proietteremo per intero. L’idea è quella di far riflettere il pubblico sulle serie TV, che vivono oggi un momento insieme alto e pericolosissimo: non ci interessava fare il giochetto promozionale per cui ti accaparri il talent ma te ne freghi del prodotto nella sua interezza. Spero che il prossimo anno Under the Sky ospiti anche altre idee, web series, Instagram Stories… qualsiasi novità di qualità, insomma, indipendentemente dal formato.
Che consigli daresti a chi volesse fare questo lavoro?
Non aver paura delle idee: autocensurarsi è il modo migliore per non realizzarle. Ci vuole tenacia, forza d’animo, e bisogna essere idealisti: i festival non li fai certo per soldi. Bisogna pensare di farli perché si ama il cinema e il posto in cui li si vuole organizzare, avendo la presunzione di volerli migliorare entrambi… o almeno di dare un contributo.