Per il suo 32° anniversario il festival del cinema LGBTQI di Torino, già TGLFF, già Da Sodoma a Hollywood, cambia nome e diventa Lovers Film Festival – Torino LGBTQI Visions. Cambia anche la direzione, affidata quest’anno a Irene Dionisio, con Giovanni Minerba (fondatore insieme a Ottavio Mai e storico direttore del festival) in veste di presidente.
Più importanza all’internalizzazione, alle differenti possibilità di espressione artistica e alle molteplici identità della comunità LGBTQI, ma senza dimenticare la tradizione ormai ultratrentennale del festival e le connessioni con le realtà territoriali, grazie a un ricco programma parallelo di feste, dibattiti ed eventi culturali sparsi per tutta Torino, che si prepara a un’invasione rainbow.
Irene Dionisio, classe 1986 e torinese di nascita, vince il Premio Solinas Documentario nel 2012 con Sponde e, nel 2016, presenta al Festival di Venezia il suo primo lungometraggio, Le ultime cose, con il quale concorre al Queer Lion.
Leggendo il programma si percepisce che questo Lovers film festival sarà un festival all’insegna dell’inclusività, sia di stilemi narrativi diversi che di categorie del mondo LGBTQI. Una scelta evidente anche dall’utilizzo di un termine ombrello nel sottotitolo del festival “Queering the borders”.
Il claim di quest’anno vuole naturalmente riprendere la parola queer, usata sia in ambito militante che in ambito accademico, ed è anche una maniera per usare, in un gioco di parole, l’espressione queering, ‘mandare all’aria’. Queering the borders, nel senso di ‘mandare all’aria i confini’, è un’espressione che può essere utilizzata per tutto il festival: sia per il cambio di nome sia per la tipologia di film e per l’impostazione stessa del nuovo festival, che vuole andare oltre la sala cercando di coinvolgere molte location della città e altre discipline artistiche oltre il cinema.
Sempre a proposito del sottotitolo, la questione dei borders è uno dei principali temi dell’attualità politica, tra chiusura delle frontiere europee e muri statunitensi. Questo è anche un tema del festival? In che modo sei riuscita a integrarlo?
Sicuramente il discorso di creare identità esclusive, quindi non-inclusive, di mettere muri e creare ghetti è un discorso molto presente anche nella questione LGBTQI. Visto che nella società italiana, nonostante ci siano purtroppo ancora molti elementi omofobici, è in atto anche una grande evoluzione, trovo corretto che ci sia, all’interno del festival, occasione di riportare in discussione questa tematica. Poiché ci sono attualmente dei segnali politici molto forti, come ricordavi tu, ci è sembrato giusto, riprendendo anche il claim del Salone del Libro di quest’anno (Oltre il confine), ragionare di nuovo su che cosa sono i confini e quindi su cosa sono le identità.
Uno dei cambiamenti più importanti, oltre al nome, è che la direzione passa (non me ne voglia Giovanni Minerba che negli scorsi anni ha fatto un ottimo lavoro e che quest’anno ti affiancherà come presidente del festival) finalmente a una donna. Una donna under 35, ma soprattutto una regista e sceneggiatrice. Come cambierà questo festival dal tuo punto di vista (di donna e di collaboratrice attiva all’industria cinematografica)?
Io non penso, ma non l’ho mai pensato, che i festival siano ad personam. Credo che i festival siano fatti da molte persone che lavorano in sinergia; quindi io, come direttrice, non sono altro che una persona che coordina. Sicuramente ho una mia visione e una mia impostazione, ma poi coordino le scelte di vari selezionatori, pensando alle sensibilità più importanti per quelle che sono le tematiche del festival. Penso che sia comunque un segnale molto bello passare a una donna, soprattutto giovane, anche per cercare un pubblico nuovo, differente rispetto agli anni precedenti. Sicuramente io, come regista e sceneggiatrice, posso portare avanti un certo punto di vista sulla selezione, questo anche grazie a un gruppo molto vario di selezione che ho scelto vicino a me: ci sono attivisti, studiosi della questione, critici e programmer, in più ci sono persone che appartengono da sempre a quello che fu Da Sodoma a Hollywood e poi TGLFF e che quindi hanno letteralmente costruito questi trent’anni di percorso.
Non credo sia un caso che il Festival del cinema LGBTQI vada in scena a giugno, il mese del Pride. I primi pride italiani si sono già svolti, gli altri seguiranno nelle prossime settimane. Al Basilicata Pride è scoppiato il caso sulla sobrietà del Pride, riaccendendo la faida interna alla comunità LGBTQI tra chi reclama “omosessuali più normali” e chi taccia la sobrietà imposta come eteronormatività interiorizzata. Facendola breve, da 1 a 10 quanto sarà sobria la prima versione Lovers di questo festival?
Ma per niente! Abbiamo reintrodotto tutte le feste storiche e speriamo in eventuali denunce da qualche arcivescovo. Assolutamente, anzi, quest’anno abbiamo una certa radicalità sia nel tipo di cose che portiamo, sia nelle feste che abbiamo voluto ripristinare, sia nei dei dibattiti super importanti previsti all’interno del cinema e nella città. La sobrietà in un festival certamente esiste, ed è dentro la sala, perché lì dentro non è che possa succedere chissà cosa, però facendo una rete con le feste gay e lesbiche più importanti di Torino siamo riusciti a ricreare un circuito che va oltre la sala cinematografica. Per me l’arte è sempre stata espressione di libertà, e la libertà sta anche nel saper andare oltre ai limiti della formalità e dell’essere moderati. Quindi assolutamente NO sobrietà!
Non si fanno figli e figliastri, lo so, ma facciamoli lo stesso: di quali titoli (di un panorama davvero molto ricco) sei più orgogliosa che siano proprio nel tuo festival?
Sicuramente di Tom of Finland (Dome Karukoski), che è il film di apertura; io lo vidi al Göteborg Film Festival, in Svezia, che è uno dei festival di cinema più importanti del nord Europa ed è stato un film acclamatissimo sia dal pubblico che dalla critica. Poi sicuramente Sergei/Sir Gay (Mark Rappaport), un mokumentary/video-saggio molto interessante sugli indizi, nella cinematografia di Ejzenstejn, della sua omosessualità, che sarà accompagnato anche da un dibattito condotto dal nostro presidente Giovanni Minerba, con Vieri Razzini, Vincenzo Patanè, teorico del cinema, ed Elsi Perino, una delle nostre selezionatrici.
C’è Small Talk (Hui-chen Huang), documentario a tematica lesbica molto intenso, che ha vinto il Teddy Award come Miglior Documentario allo scorso Festival di Berlino e poi l’ultima segnalazione è per The Pass di Ben Williams, (film d’apertura del BFI Flare, il festival del cinema LGBT di Londra e candidato al BAFTA per la migliore opera prima), che sarà lo stesso giorno del Torino Pride, cui seguirà un dibattito sull’omofobia nel mondo del calcio con Francesca Vecchioni e Gianpaolo Omezzano.
In questo festival c’è molto spazio alle biografie: da Watch Without Prejudice vol. 1 su George Michael a Tom of Finland, a un focus speciale su Tomas Milian, al racconto della vita di “Varichina”, ovvero Lorenzo De Santis, primo chiassoso e pittoresco omosessuale di Bari, vissuto negli anni ’70. Come mai?
L’idea è stata quella di continuare con il discorso iniziato da Minerba, ovvero che gli individui, le persone, gli esempi, sono fondamentali per la comunità. Io sono per una, chiamiamola così, “semiotica dell’esempio”. Per me l’esempio è precedente a qualsiasi tipo di teoria o di frase o di parola e quindi era davvero fondamentale, per noi, portare esempi sani, dove con “sani” intendo rivoluzionari, ma allo stesso con una forte carica artistica, perché credo anche molto nell’arte come sovvertitore dello status quo, di parametri imposti e di un ordine sociale prestabilito.
Finito il festival che film tornerai a guardare?
In realtà subito dopo il festival girerò una cosa, quindi lavorerò più che altro su materiale mio; o meglio tornerò a guardare quello che guardavo prima ma con sguardo nuovo.